I vari istituti retributivi di fonte contrattuale non diventano automaticamente diritti acquisiti (o come con altra analoga espressione “diritti quesiti”) nemmeno dopo decenni, se non sono contenuti nel contratto individuale di lavoro o se non costituiscono elementi retributivi necessari alla determinazione della retribuzione “proporzionata” e “sufficiente” di cui all’art. 36 della Costituzione Italiana.
Il datore di lavoro può disdettare un contratto collettivo aziendale, anche dopo diversi decenni di applicazione e, nei limiti dell’obbligo di erogare una retribuzione conforme alla legge ed all’art. 36 della Costituzione Italiana, ciò può anche comportare una riduzione della retribuzione di fatto erogata ai propri dipendenti.
In estrema sintesi è questo il concetto essenziale che emerge da costante giurisprudenza di merito e di legittimità, fino ai recenti pronunciamenti della Corte di Cassazione pubblicati nei mesi scorsi.
Di seguito proverò ad esaminare in dettaglio i pronunciamenti della Corte di Cassazione e dei Giudici del merito nei casi in cui erano in contestazione aspetti della retribuzione per cui entravano in gioco sia l’efficacia della disdetta di previgenti accordi e prassi, sia il concetto di diritto acquisito, sia quello di retribuzione ex art. 36 della Costituzione Italiana.
Già nel 2009 la Corte di Cassazione con la sentenza del 20/08/2009, n. 18548 aveva espresso il seguente principio di diritto:
“Il contratto collettivo, senza predeterminazione di un termine di efficacia, non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finirebbe in tal caso per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione ve estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all’esigenza di evitare -nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto – la perpetuità del vincolo obbligatorio. Ne consegue che, in caso di disdetta del contratto, i diritti dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole, sono intangibili solo in quanto siano già entrati nel patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita, e non anche quando vengano in rilievo delle mere aspettative sorte alla stregua della precedente più favorevole regolamentazione.”
Per rendere più chiaro il concetto di diritto già entrato nel patrimonio del lavoratore, oltre alla quota di retribuzione maturata fino al giorno precedente la disdetta del contratto collettivo può essere utile considerare il caso di un lavoratore che in base ad un contratto collettivo aveva appena maturato il requisito di anzianità necessario ad avere diritto ad un determinato premio. In questo caso, se l’efficacia della disdetta decorre da data successiva al raggiungimento del requisito di anzianità, il premio previsto dal contratto poi disdettato deve comunque essere erogato al dipendente, anche se non lo aveva formalmente già richiesto.
Questo orientamento giurisprudenziale non è mai mutato nel tempo. Infatti, come si vedrà più avanti, recentemente la Corte di Cassazione ed i Tribunali del merito, anche in grado d’appello, lo hanno sempre confermato
Con l’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 31148 del 21/10/2022, coerentemente con precedenti pronunce, ancora una volta è stato affermato il seguente principio giuridico “…come chiarito dalla costante giurisprudenza della S.C., nell’ ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni “in peius” per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicchè le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale (Cass. n. 13960/2014, Cass. n. 21234/2007)…”
Lo stesso principio è stato riaffermato dalla Corte d’Appello Milano, Sez. lavoro, con la sentenza del 07/09/2023, n. 766: “Le modificazioni ” in peius” per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole, che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale.”
Quindi, ciò che era previsto nei contratti collettivi ormai disdettati, se non è esplicitamente contenuto anche nel contratto individuale del singolo lavoratore interessato, non rientra nel concetto di diritto quesito che è, invece, costituito da ciò che è già entrato nel patrimonio dello stesso, anche se il corrispettivo non è ancora stato materialmente erogato. Quest’ultimo è, per esempio, il caso di indennità o premi aziendali maturati nell’ultimo periodo di lavoro, prima dell’efficacia della disdetta del contratto collettivo, come chiarisce la Corte d’Appello di Roma, Sez. lavoro, con la sentenza del 22/05/2023, n. 1802 nella quale si afferma che “…è consentito, inoltre, parlare di diritto quesito, a fronte del quale vige la regola dell’ intangibilità, solo allorquando si configuri una situazione che sia entrata a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato, in funzione di corrispettivo di una prestazione già resa e nell’ambito, quindi, di un rapporto o di una fase già esauriti, e non invece in presenza di situazioni future o di fattispecie in via di consolidamento, di frequente prospettazione nel contratto di lavoro, da cui scaturisce un rapporto di durata con prestazioni ad esecuzione periodica o continuativa, autonome tra loro e suscettibili, come tali, di essere differentemente regolate – in caso di successione di contratti collettivi – in ragione della disciplina pattizia vigente al momento in cui vengono spiegate.”
Nell stesso senso si è ulteriormente pronunciata la Corte di Cassazione il 21/09/2023 con l’Ordinanza n.27054, in un caso relativo ed ex dipendenti Enel. Nella sentenza si legge, infatti: “alla luce delle superiori considerazioni è da escludere la configurabilità di un diritto quesito al mantenimento del beneficio. A riguardo occorre premettere che, secondo l’orientamento del giudice di legittimità, nell’ambito del rapporto di lavoro sono configurabili diritti quesiti, che non possono essere incisi dalla contrattazione collettiva in mancanza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte dei singoli lavoratori, solo con riferimento a situazioni che siano entrate a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato, come nel caso dei corrispettivi di prestazioni già rese, e non invece in presenza di quelle situazioni future o in via di consolidamento, che sono frequenti nel contratto di lavoro, da cui scaturisce un rapporto di durata con prestazioni ad esecuzione periodica o continuativa, autonome tra loro e suscettibili come tali di essere differentemente regolate in caso di successione di contratti collettivi (Cass. n. 14944 del 2014; Cass. n 20838 del 2009). Pertanto, gli unici diritti intangibili sono quelli che sono già entrati a far parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già eseguita, situazioni queste non configurabili in relazione alla pretesa azionata dagli odierni ricorrenti, espressione di una mera aspettativa al mantenimento nel tempo della più favorevole normativa collettiva che tale beneficio ha previsto.”
In un altro caso che ha visto soccombenti i lavoratori di un’impresa del settore del trasporto pubblico locale (tpl) , la Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 31505/2023 si è così espressa:
“…nell’ ipotesi di successione tra contratti collettivi, le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive anche in senso sfavorevole al lavoratore, con il solo limite dei diritti quesiti, e il lavoratore non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente. Le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale. Pertanto, nel caso di successione di contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale (cfr. Cass. 10/10/2007 n. 21234 e 19/06/2014 n. 13960).”
Questo orientamento interpretativo è stato ancora confermato dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l’Ordinanza del 05/04/2024, n. 9136, nella quale si afferma che “Nell’ ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni peggiorative per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, senza che si possa considerare come definitivamente acquisito un diritto derivante da una norma collettiva caducata o sostituita da altra successiva, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento concorrente con la fonte individuale, ….”
Lo stesso orientamento giurisprudenziale si applica anche a quegli istituti della retribuzione previsti in ambito aziendale, non per effetto di contratti collettivi, ma per costante prassi.
Il Tribunale di Milano, già nel 2014, con riferimento ad un analogo principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione nel 2010, con la sentenza n. 3167 ha ribadito la legittimità della disdetta unilaterale di prassi aziendali precisando che “In generale, in tema di prassi e usi aziendali, la Cassazione (sentenza n. 5882/10) ha affermato: “l’uso aziendale, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo del datore di lavoro, che non trova origine nel contratto collettivo o individuale ma solo in un comportamento spontaneo del medesimo datore di lavoro, agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, sostituendo alle clausole contrattuali e a quelle collettive in vigore quelle piu’ favorevoli dell’uso aziendale, secondo il disposto dell’art. 2077 c.c., comma 2 (Cass. n. 15489/2007, n. 14471/2006, n. 985/2005, n. 9690/1996.” .
La Corte d’Appello di Milano, Sez. Lavoro, con la sentenza del 18/09/2023, confermando l’orientamento interpretativo del Tribunale, come sopra indicato, così si è espressa: “La giurisprudenza (cfr. ad esempio Cass. 8.4.2010, n. 8342) ha anche rimarcato che – una volta accertata la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti che si traduca, come è nel caso di specie, in un trattamento economico o normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti (individuali e collettivi) – la conseguente individuazione di un uso aziendale comporta che alla modifica in melius del trattamento dovuto ai lavoratori non si applichino: – né l’art. 1340 cod. civ. (norma che presuppone un uso già esistente per una determinata tipologia di contratti, la tacita volontà di inserimento delle parti ed il potere delle stesse di escluderlo); – né, in generale, la disciplina civilistica sui contratti (con esclusione, quindi, di un’ indagine sulla volontà del datore di lavoro e dei sindacati, collocandosi l’uso aziendale sul piano della regolamentazione collettiva esterna ai contratti individuali e traendo origine dal mero fatto del comportamento spontaneo del datore di lavoro); – né l’art. 2077, comma secondo, cod. civ. (attesa la dimensione collettiva e non individuale della regolamentazione originata da un uso aziendale, ferma peraltro la conseguente legittimazione delle fonti collettive, nazionali e aziendali, di disporre una modifica “in pejus” del trattamento in tal modo attribuito).
Nella stessa sentenza della Corte d’Appello di Milano sopra citata, si specifica che anche in alcuni casi di diritto soggettivo quale è il superminimo individuale, se non altrimenti previsto in modo esplicito, non si è in presenza di diritto quesito. Infatti, nella stessa sentenza si legge che: “Parimenti non è dubitabile che, come reiteratamente affermato dalla Suprema Corte di Cassazione, il cosiddetto superminimo, ossia l’eccedenza retributiva rispetto ai minimi tabellari individualmente pattuita tra datore di lavoro e lavoratore, sia di regola soggetto al principio dell’assorbimento, a meno che le parti abbiano convenuto diversamente o la contrattazione collettiva abbia altrimenti disposto, restando a carico del lavoratore l’onere di provare la sussistenza del titolo che autorizza il mantenimento del superminimo, escludendone l’assorbimento…”
Una precisazione meritano le indennità previste dal CCNL ed incrementate dal Contratto aziendale poi disdettato. In questo caso, restando vigente il Contratto nazionale, pur venendo meno la maggiorazione delle indennità previste nel Contratto collettivo aziendale disdettato, resta fermo il diritto dei lavoratori a percepire la/le indennità nella misura prevista dal CCNL.
In questo senso si è espressa la Corte d’Appello di Genova, sentenza n. 524/2019 che in un caso riguardante dipendenti di un’azienda del settore autoferrotranvieri (tpl) così si è espressa: “La contrattazione collettiva nazionale (CCNL del 2013) ha poi previsto la spettanza di una remunerazione aggiuntiva a fronte dell’attività di vendita a bordo dei titoli di viaggio nel caso in cui tale voce non fosse prevista dalla contrattazione collettiva. Secondo quanto chiarito dalla difesa degli appellati all’udienza del 22 ottobre 2019, risulta però che dopo la revoca degli accordi aziendali la Società ha corrisposto agli appellati la remunerazione aggiuntiva prevista dalla contrattazione collettiva nazionale. In altre parole: la Società … ha effettuato il pagamento della retribuzione sulla base dei minimi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale.
Le considerazioni da ultimo svolte valgono, più in generale, per le restanti voci retributive previste dalla contrattazione nazionale; voci retributive che la Società ha infatti riconosciuto, dopo la revoca degli accordi aziendali, nella minor misura prevista, appunto, dalla contrattazione collettiva nazionale.”
L’eventuale contestazione ex art. 36 Cost. per le modificazioni “in pejus” della retribuzione dei dipendenti, in caso di disdetta di accordi pregressi (anche nei casi in cui siano poi intervenuti nuovi contratti collettivi e/o regolamenti aziendali peggiorativi dei precedenti) non è utile ad affermare l’immutabilità dell’intera retribuzione. Infatti, ai fini della determinazione della retribuzione ex art. 36 della Costituzione Italiana, i Giudici del merito che, a differenza della Corte di cassazione, hanno l’onere di determinare la congruità della retribuzione riconosciuta al lavoratore nei casi a loro sottoposti, nel fare riferimento ai contratti collettivi nazionali di lavoro non considerano utili tutti gli elementi retributivi stabiliti pattiziamente ma soltanto i principali. In questo senso, ribadendo un costante orientamento giurisprudenziale si è espressa la Corte d’Appello di Milano, Sez. Lavoro, con la sentenza n. 579/2022 nella quale si afferma che “In tema di adeguamento della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost., il giudice del merito, anche nell’ ipotesi in cui assuma come criterio orientativo un contratto collettivo non vincolante per le parti, non può fare riferimento a tutti gli elementi e gli istituti retributivi che concorrono a formare il complessivo trattamento economico, ma deve prendere in considerazione solo quelli che costituiscono il cosiddetto minimo costituzionale, dal quale sono escluse le voci tipicamente contrattuali quali i compensi aggiuntivi, gli scatti di anzianità o la quattordicesima mensilità.
Analogo principio è stato affermato dalla Corte d’Appello Torino, Sez. lavoro, Sentenza, 03/06/2022, n. 290 nella quale si afferma che “…il giudice, per adeguare la retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost., può assumere a parametro il contratto collettivo di settore, con riferimento limitato ai soli titoli previsti dal CCNL che integrano il concetto di giusta retribuzione, costituita dai minimi retributivi (c.d. “minimo costituzionale”) stabiliti per ciascuna qualifica dalla contrattazione collettiva (retribuzione base, indennità di contingenza e tredicesima mensilità), con esclusione, quindi, dei compensi aggiuntivi, degli scatti di anzianità e delle mensilità ulteriori rispetto alla tredicesima.”
Per quanto detto sopra non si può in ogni caso affermare che nell’ordinamento italiano vi sia un diritto all’immutabilità o all’invarianza della retribuzione dei lavoratori dipendenti o che i tutti i diritti nascenti da Contratti Collettivi o da prassi aziendali non siano revocabili o non riducibili. La retribuzione dei lavoratori dipendenti, infatti, può subire modificazioni “in pejus”, salvo gli effettivi diritti acquisiti, come sopra qualificati, e salvo il diritto ad una retribuzione conforme al precetto contenuto all’art. 36 della Costituzione Italiana che però, secondo l’interpretazione dei Giudici, non garantisce nemmeno tutti gli istituti contrattuali previsti dai CCNL.
A maggior ragione, quindi, per quanto sopra argomentato, nemmeno si pone, in diritto, il tema della sostituzione di specifici istituti previsti esclusivamente dalla contrattazione aziendale pregressa con nuovi istituti previsti dal nuovi contratti collettivi o da prassi, ovvero da regolamentazione aziendale varata a seguito di disdetta dei precedenti accordi sindacali.
Per questi motivi nella mia pubblicazione “Rapporto legge/contrattazione collettiva – La contrattazione di secondo livello dopo il Jobs act e il decreto dignità”, Edizioni Lavoro, anno 2019, nelle conclusioni, segnalo la necessità di una legge ordinaria, in alternativa al c.d. “salario minimo” (che potrebbe avere effetti di disdetta dell’adesione delle imprese ad associazioni datoriali firmatarie di CCNL per la legittima disapplicazione di questi ultimi, in funzione della riduzione delle retribuzioni) con la quale si possa affermare che la retribuzione ex art. 36 della Costituzione è quella complessivamente prevista dai CCNL sottoscritti dalle associazioni leader (maggiormente rappresentative), vincolando, in tal modo, i giudici all’integrale applicazione di tutti gli istituti contrattuali nazionali.
Ovviamente, anche se il Parlamento varasse (cosa che, oggi, appare alquanto improbabile) una legge con queste caratteristiche non si potrebbe comunque vincolare i datori di lavoro a non modificare, anche “in pejus”, la retribuzione di fonte esclusivamente aziendale in quanto, occorre sempre consentire un adattamento dell’impresa alle mutevoli situazioni del contesto in cui essa opera, anche in funzione dell’incentivazione di comportamenti dei dipendenti maggiormente adeguati alle esigenze economico-organizzative in divenire.
02/08/2024
Avv. Giorgio Tessitore
Esperto in relazioni industriali, diritto del lavoro, sindacale e previdenziale