La Corte di Cassazione civile, Sez. lavoro, con la sentenza del 09/03/2021, n. 6497 (data ud. 11/11/2020) è intervenuta nuovamente sulla sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle proprie mansioni e sul c.d. accomodamento ragionevole. La questione ha grande rilevanza, non solo giuridica, perché riguarda due tra i più rilevanti diritti della persona: la salute ed il lavoro.
Le implicazioni della sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni a causa di malattia o di infortunio, con il rischio di perdita del rapporto di lavoro, resta motivo di contrasto tra le parti e di intervento della magistratura del lavoro e della Corte di Cassazione.
L’esatta individuazione dei vincoli, per i datori di lavoro, previsti dalle norme di livello internazionale e da quelle interne, anche derivate dal diritto dell’Unione Europea, è questione di grande importanza, sia per i lavoratori assunti in base alle norme sull’obbligo di inserimento delle c.d. categorie protette sia per quanti sono divenuti successivamente inidonei, durante il rapporto di lavoro.
Prima di giungere al licenziamento del lavoratore inidoneo, il datore ha sempre l’obbligo di verificare la possibilità del reinserimento del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione svolta, mediante il c.d. accomodamento ragionevole[1]. Per esso, sinteticamente, si intende l’adozione di misure efficaci destinate a risistemare un posto di lavoro, lungo il processo produttivo, se del caso, mediante interventi sulle attrezzature, sulle tecnologie impiegate, sulla ripartizione dei compiti tra i lavoratori, anche con l’ausilio di attività formative, che siano necessari ed appropriati all’inserimento lavorativo del soggetto divenuto non idoneo all’attività fin qui svolta, quando queste modifiche non comportano un onere sproporzionato o eccessivo per il datore di lavoro ovvero un danno per gli altri lavoratori. In sostanza si tratta delle misure adottate per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, del diritto al lavoro. Solo se non sussistono le condizioni per attuare l’accomodamento ragionevole il datore di lavoro potrà legittimamente risolvere il rapporto di lavoro.
In pratica, quindi, occorre individuare, caso per caso, quando il datore di lavoro può legittimamente risolvere il rapporto di lavoro per sopravvenuta inidoneità del lavoratore, in relazione all’oggettiva impossibilità e/o all’eccessiva onerosità, intesa in senso lato, delle misure necessarie a ricollocare il lavoratore.
La questione ha un riferimento interno all’ordinamento giuridico nazionale innanzitutto grazie alla norma contenuta al c. 2 dell’art. 10 della L. n. 68 del 1999 che specificamente prevede: “Il datore di lavoro non può chiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue minorazioni”
L’importanza della questione e la rilevanza dei pronunciamenti giurisprudenziali sul c.d. accomodamento ragionevole che si sono susseguiti in questi anni non derivano tanto dal numero dei casi affrontati dalla magistratura, a seguito di impugnative di licenziamento motivato da sopravvenuta inidoneità alla prestazione, quanto dalla rilevanza sociale della questione e dal livello di civiltà raggiunto dalla comunità.
Tuttavia, è molto probabile che la questione dell’accomodamento ragionevole riguardi un numero consistente di persone. Pur in assenza di dati specifici, si consideri che, in base ad un’indagine Favo[2]-Censis sui soli malati oncologici, nel nostro Paese ben 274 mila persone sono state licenziate o costrette alle dimissioni a seguito della diagnosi di cancro. La stessa indagine rivela che il 78 per cento dei malati oncologici ha subìto un cambiamento nel lavoro. E la questione riguarda non soltanto le grandi patologie sulle quali è impegnata la ricerca scientifica (cancro, SLA, sclerosi multipla, varie malattie autoimmuni, ecc.) specialmente negli stadi iniziali, quando la capacità lavorativa residua è ancora rilevante, ma qualsiasi menomazione alla salute della persona, anche di apparente minore rilevanza, che determini una sua inidoneità alla mansione svolta, fuori ed oltre le situazioni in cui il soggetto risulta inquadrabile tra le categorie dei disabili di cui alla L. n. 68/1999. In questo senso si è espressa la Corte di Giustizia dell’U.E. nella sentenza 4 luglio 2013 di condanna dell’Italia per inadempimento (mancata attuazione, a quella data, della direttiva 2000/78/CE). In questa sentenza la C.G.U.E. ha esplicitamente incluso nella nozione di disabilità “…una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”
Le norme utilizzabili per delimitare i diritti dei lavoratori ed i corrispondenti obblighi datoriali, in questa materia, seppur non sempre varate per affrontare specificamente la questione, dal Parlamento italiano, o dagli organi dell’Unione Europea, si sono gradualmente incrementate:
- L. n. 68 del 12 marzo 1999. Norme per il diritto al lavoro dei disabili;
- Art. 3, d.lgs. n. 216/2003 e s.m.i. Principio di parità di trattamento delle persone con disabilità (il d.lgs. 216/2003 è stato approvato in attuazione della direttiva 2000/78/CE a seguito di condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea per inadempimento);
- Art. 42, d.lgs. 81/2008 e s.m.i. T.U. in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro;
- Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, del 13/12/2006, ratificata in Italia ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18.
La magistratura, in applicazione delle fonti normative sopra citate, è più volte intervenuta sulla questione in esame per dirimere contrasti tra lavoratori e datori di lavoro.
Recentemente, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6497/2021, ha ulteriormente precisato gli obblighi del datore di lavoro nel caso di un lavoratore divenuto inidoneo alla mansione svolta. In questo caso, la Suprema Corte ha confermato il giudizio già espresso dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Milano che avevano deciso per la reintegrazione del lavoratore licenziato, ed ha respinto il ricorso dell’impresa che aveva licenziato illegittimamente il dipendente per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione svolta, senza aver preventivamente esaminato le possibilità di ricollocazione in altra posizione lavorativa anche mediante il c.d. “accomodamento ragionevole”. Il principio di diritto affermato dalla Cassazione, in questa sentenza, è riassumibile come segue: non basta che il datore di lavoro dimostri l’impossibilità di ricollocare il lavoratore con handicap e sopraggiunta inidoneità fisica alle mansioni svolte, in qualche altra area dell’attività aziendale, come aveva cercato di dimostrare l’azienda in giudizio, ma è necessario che lo stesso datore di lavoro verifichi, preventivamente, la possibilità che vengano adottate le misure ragionevolmente applicabili a livello aziendale, organizzative e/o finanziarie, al fine di creare il posto di lavoro adatto al lavoratore, per evitare il licenziamento, e solo in mancanza delle suddette possibilità potrà legittimamente intimare il licenziamento.
Nella stessa sentenza è specificamente indicato che questo concetto vale nei due seguenti possibili casi:
- per i soggetti assunti come invalidi ai fini del collocamento obbligatorio, nel caso di aggravamento delle condizioni di salute, il rapporto di lavoro può essere risolto solo nel caso in cui, “anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro”, la commissione integrata di cui all’art. 4 della legge n. 104/92 “accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda” (art. 10, comma 3, legge n. 68/1999).
- per i lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia, in quanto l’art. 4, c. 4, L. 68/1999, prevede che tali eventi “…non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori”. L’obbligo del datore di lavoro di riposizionare il lavoratore divenuto inidoneo anche in mansioni inferiori è stato poi ulteriormente previsto all’art. 42 del D.Lgs. n. 81/2008.
La Corte di Cassazione in passato era già intervenuta più volte sull’argomento della sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni svolte. Già con la sentenza delle Sezioni Unite n. 7755 del 07/08/1998 aveva affermato il principio giuridico secondo il quale “in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l’impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (art. 1 e 3 l. n. 604 del 1966 e art. 1463 e 1464 c.c.) non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perchè può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività che sia riconducibile – alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 c.c.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori…”, secondo l’organizzazione del lavoro stabilita dall’imprenditore.
Inoltre, fermo restando la possibilità per il lavoratore di indicare altre occupazioni compatibili con il suo nuovo stato di salute, anche dimostrandone la disponibilità, l’onere della prova dell’impossibilità del c.d. repechage del lavoratore grava sul datore di lavoro, come già affermato dalla Corte di Cassazione anche prima del pronunciamento delle Sezioni Uniti del 1998:
- “l’onere della prova della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe e quelle svolte in precedenza, pur dovendo essere mantenuto entro limiti di ragionevolezza sì che può considerarsi assolto anche mediante il ricorso a risultanze probatorie di natura presuntiva e indiziaria… non può tuttavia essere posto direttamente o indirettamente a carico del lavoratore, neppure al solo fine della indicazione di posti di lavoro assegnabili invero, pur dovendosi tener conto della specificità dei vari settori dell’impresa, la superfluità del lavoro del dipendente licenziato deve essere valutata entro l’ambito dell’intera azienda e non già con riferimento al singolo posto ricoperto, nel senso che grava interamente sul datore di lavoro la dimostrazione della impossibilità di utilizzare il dipendente in altro settore della stessa azienda” (Cass. 7 luglio 1992 n. 8254);
- “La prova…dell’impossibilità di un diverso impiego della lavoratrice licenziata nell’azienda, senza dequalificazione, gravava per intero anch’essa sul datore di lavoro e non poteva quindi trasferirsi neppure in parte sulla lavoratrice (pur se al solo fine dell’indicazione di posti di lavoro a lei assegnabili). Non si vede in realtà come sia esigibile un’indicazione del genere da parte del lavoratore licenziato, che è estraneo all’organizzazione aziendale, e l’indirizzo in tal senso di questa Corte… può dirsi costante” (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164).
Questo orientamento interpretativo della Suprema Corte è stato confermato anche pochi anni fa con la sentenza n. 4502/2016 nella quale è espresso il seguente principio di diritto: “Nel caso in cui una lavoratrice asserisca di non poter svolgere le nuove mansioni che le sono state assegnate e conseguentemente rifiuti la relativa prestazione, è onere del datore di lavoro – prima di procedere al licenziamento – farne valutare l’idoneità a tali nuove mansioni in adempimento ai doveri connessi alle norme in materia di sicurezza sul lavoro e agli obblighi di correttezza e buona fede.”
Per ciò che riguarda il mutamento di mansioni che può essere necessario per il reinserimento lavorativo del lavoratore divenuto inidoneo allo svolgimento delle attività precedentemente svolte, già in passato, la norma speciale contenuta all’art. 4, c. 4 della legge n. 68/1999 consentiva una deroga al generale divieto assoluto di demansionamento previsto all’art. 2103 c.c., come novellato dall’art. 13 della legge n. 300/70, legge nota come “Statuto dei diritti dei lavoratori”.
Ormai, con la riforma delle suddette norme della L. 300/70 ad opera dell’art. 3, d.lgs. n. 81/2015, è stata ampliata la casistica relativa alle possibilità di demansionamento, peraltro con l’inserimento di casi in cui, con accordi in sede assistita (sede sindacale, Ispettorato territoriale del lavoro) è possibile modificare anche il livello di inquadramento, la qualifica, la categoria legale (Dirigente, quadro, impiegato, operaio) ed anche la retribuzione con riposizionamento sul nuovo inquadramento nei tre casi previsti al comma 6 del nuovo art. 2103 del codice civile (conservazione dell’occupazione, acquisizione di una diversa professionalità, miglioramento delle condizioni di vita). In questi casi, al momento della stipula dell’accordo individuale, il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro.
Inoltre, nell’ambito della ricerca delle soluzioni aziendali finalizzate all’accomodamento ragionevole, in alcuni casi potrebbero tornare utili le soluzioni tecnologiche che possono consentire l’applicazione del c.d. lavoro agile introdotto con la L. n. 81/2017, artt. 18-24, oppure il telelavoro di cui all’intesa Governo – parti sociali del 7 marzo 2011 (ulteriormente specificata in alcuni CCNL). Per la sola Pubblica Amministrazione, il telelavoro è regolata dall’art. 4 della legge n. 191/1998 e dall’accordo-quadro intercompartimentale, siglato il 21 luglio 1999.
Fuori dai casi di risoluzione consensuale della problematica mediante l’attuazione di misure riconducibili al concetto di accomodamento ragionevole, quando il datore di lavoro compie la scelta estrema della risoluzione del rapporto di lavoro, in alcuni casi di licenziamento di soggetto con handicap, ricorrendone le altre condizioni, sarà perfino possibile per il lavoratore sostenere la tesi del licenziamento discriminatorio che renderebbe il fatto socialmente ancor più riprovevole.
In caso di licenziamento illegittimo perché attuato dal datore di lavoro senza aver adottato le possibili misure
di “adattamento ragionevole”, in base alle norme vigenti, anche dopo le modifiche previste dal “jobs act” (d.lgs. 23/2015) alle norme ex art. 18 L. 300/70, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, le tutele applicabili sono:
- La reintegrazione con risarcimento economico pieno, in base all’art. 2 commi 1 e 4 del d.lgs. 23/2015, nel caso di licenziamento discriminatorio:
“Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.” (…)
- La reintegrazione con risarcimento economico pieno, in base all’art. 2 comma 4 del d.lgs. 23/2015, nel caso di licenziamento senza aver rispettato l’obbligo di repechage e senza aver dimostrato che non era possibile attuare un adattamento ragionevole:
“La disciplina di cui al presente articolo trova applicazione anche nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68.
C’è da augurarsi che la diffusione della conoscenza delle norme vigenti, così come interpretate dalla giurisprudenza di merito e dalla Corte di Cassazione, nei casi di lavoratori con sopraggiunta inidoneità alle mansioni svolte, induca i datori di lavoro interessati ad intervenire, quanto più è possibile, con misure utili, in modo da creare le condizioni per il reinserimento produttivo dello stesso lavoratore, evitandone l’emarginazione sociale.
Partanna, 01/06/2021
Avv. Giorgio Tessitore
esperto in diritto del lavoro e previdenziale
convenzionato con il patronato Inas Cisl
[1] La Convenzione ONU del 13/12/2006 definisce l’accomodamento ragionevole come “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia la necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”
[2] F.A.V.O. è la Federazione delle Associazioni di Volontariato in Oncologia.