In caso di licenziamento per superamento del c.d. periodo di comporto da parte di un lavoratore disabile[1] per effetto della stessa norma contrattuale ordinariamente valida per gli altri lavoratori, il licenziamento è nullo ed il dipendente ha diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro ed ha diritto al risarcimento delle mensilità non erogate in quanto il calcolo delle assenze non può essere uguale a quello dei lavoratori non portatori di handicap.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 15282/2024, ha confermato l’orientamento giurisprudenziale già espresso con la sentenza n. 9095 del 31/03/2023 e ribadito con la sentenza n. 35743/2023.
Il caso di cui si è occupata la Corte di Cassazione con quest’ultima sentenza riguardava un lavoratore dipendente già dichiarato invalido dall’Inps nella misura del 40%.
Sullo stesso argomento si veda il mio commento alla sopra citata sentenza n. 9095/2023 al seguente indirizzo:
Con la sentenza n. 15282/2024 la Corte di Cassazione, rigettando il ricorso presentato dall’azienda, ha confermato l’ordine di reintegra contenuto nella sentenza di secondo grado con cui la Corte d’Appello di Roma aveva dichiarato nullo il licenziamento e condannato il datore di lavoro (S.p.A. che applicava il contratto collettivo “Federculture”) a corrispondere al lavoratore le mensilità maturate dal giorno della cessazione del rapporto a quello della effettiva reintegrazione.
Il principio di diritto, già affermato dalla Suprema Corte nel 2023, contenuto nella sentenza n. 15282/2024 può essere riassunto sinteticamente nel seguente modo:
Al fine della determinazione del periodo di comporto di malattia il calcolo delle assenze non può essere uguale a quello dei dipendenti non portatori di handicap in quanto, “in coerenza con la giurisprudenza della Corte di Giustizia … il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti ed obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e, perciò, vietata.”
Nel testo della sentenza si trova un esplicito riferimento al comma 3 bis dell’art. 3 del d.lgs. n. 216/2003[2] con cui l’Italia ha recepito nel proprio ordinamento la “direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e la direttiva n. 2014/54/UE relativa alle misure intese ad agevolare l’esercizio dei diritti conferiti ai lavoratori nel quadro della libera circolazione dei lavoratori”
Chi è interessato ad approfondire la conoscenza in materia di accomodamento ragionevole, di cui al sopra citato c. 3 bis, art. 3, d.lgs. n. 216/2003, potrà consultare un mio articolo al seguente indirizzo: https://www.avvocatotessitore.it/effetti-della-sopravvenuta-inidoneita-del-lavoratore-alle-mansioni-svolte-laccomodamento-ragionevole-la-nullita-del-licenziamento-illegittimo-e-la-reintegrazione/
26/08/2024
Avv. Giorgio Tessitore
esperto in relazioni industriali, diritto del lavoro e previdenziale
convenzionato con il patronato Inas Cisl
[1] Per chiarire il concetto di disabilità, per i fini di cui si occupano le sentenze sull’argomento in esame, si riportano due periodi della sentenza in commento.
“Secondo la Corte di Giustizia “la nozione di “handicap” di cui alla direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata” (CGUE sentenze 11 aprile 2013, HKDanmark, C-335/11 e C-337/11, punti 38-42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42).
Per quanto riguarda la nozione del carattere “duraturo” della limitazione, “tra gli indizi che consentono di considerare “duratura” una limitazione figura in particolare la circostanza che, all’epoca del fatto asseritamente discriminatorio, la menomazione dell’interessato non presentava una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo o, (…), il fatto che tale menomazione poteva protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona”, mediante una valutazione essenzialmente di fatto compiuta dal giudice, basata “sugli elementi obiettivi complessivi di cui dispone, in particolare sui documenti e sui certificati concernenti lo stato di tale persona, redatti sulla base di conoscenze e dati medici e scientifici attuali” (CGUE, sentenza, 1.12.2016, DAOUIDI, cause riunite C-395/2015, punti 54-57, di recente richiamata da Cass. n. 10568 del 2024).”
[2] Il comma 3-bis dell’art. 3 del d.lgs. n. 216/2003 è il seguente: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.”