Sommario: 1. La direttiva (UE) n. 2022/2041 del 19/10/2022. Cenni. 2. La situazione in Italia per l’applicazione della retribuzione “proporzionata” e “sufficiente”, ex art. 36 Costituzione. 2.1 La prevalente giurisprudenza sull’art. 36 della Costituzione. 2.2 La riscossione dei contributi previdenziali in base alla legge sul minimale contributivo. 3. La misurazione della rappresentatività sindacale. 3.1 Il testo unico sulla rappresentanza. 3.2 La proposta di legge sulla misurazione della rappresentatività presentata alla Camera dei deputati nel 2022. 4. Problemi di compatibilità delle norme di legge ordinaria con gli art. 36 e 39 della Costituzione. 5. I possibili effetti della determinazione per legge di una soglia numerica di retribuzione minima. 6. Motivi ed effetti della mancata attuazione dei commi 2 – 4 dell’art. 39 Costituzione
- La direttiva (UE) n. 2022/2041 del 19/10/2022. Cenni
La direttiva non stabilisce un salario minimo né di livello europeo, né per singolo Paese aderente all’Unione Europea né impone ai singoli Stati membri la sua istituzione, bensì induce, in ambito nazionale, a favorire la contrattazione collettiva ed indica i criteri per la determinazione e/o l’innalzamento della retribuzione minima legale ove esistente e/o per i Paesi che volessero introdurla.
Scopo principale della direttiva appare quello di spingere tutti gli Stati membri ad assicurare ai lavoratori una retribuzione utile ad avere un tenore di vita dignitoso che consenta l’inclusione sociale, anche perché, come si dice al considerando n. 7, “Migliori condizioni di vita e di lavoro, anche attraverso salari minimi adeguati ed equi, apportano vantaggi ai lavoratori e alle imprese dell’Unione, come pure alla società e all’economia in generale, e sono un presupposto fondamentale per conseguire una crescita equa, inclusiva e sostenibile.”. La principale via indicata nella direttiva, per il raggiungimento di questo obiettivo, è il potenziamento della contrattazione collettiva, segnatamente nei Paesi che hanno una “copertura” della contrattazione inferiore all’80%.
Si segnala che nella stessa direttiva, al considerando n. 13[1] si legge che “Nella maggior parte dei casi la tutela garantita dal salario minimo prevista nei contratti collettivi per le occupazioni a bassa retribuzione è adeguata e garantisce pertanto un tenore di vita dignitoso, dimostrandosi inoltre un mezzo efficace per ridurre la povertà lavorativa. In diversi Stati membri i salari minimi legali sono solitamente bassi rispetto ad altri salari offerti dal sistema economico. Nel 2018 in nove Stati membri il salario minimo legale non costituiva, per un singolo lavoratore che lo percepiva, un reddito sufficiente a superare la soglia di rischio di povertà.”
La direttiva dell’U.E. 2022/2041 deve essere recepita dai Paesi membri entro il 15 novembre 2024.
L’Italia potrebbe anticipare i tempi in applicazione della c.d. legge di delegazione europea[2]. Infatti, il Consiglio dei Ministri del 15 giugno 2023 ha deciso di presentare al Parlamento, un disegno di legge di delega, con procedura d’urgenza, per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione Europea – c.d. legge di delegazione europea 2022 – 2023 per recepire alcune direttive europee tra le quali vi è quella in discorso (ed anche la Direttiva (UE) 2023/970 del Parlamento europeo e del Consiglio del 10 maggio 2023 volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore).
- La situazione in Italia per l’applicazione della retribuzione “proporzionata” e “sufficiente”, ex art. 36 Costituzione[3]
In Italia, la questione dell’adeguatezza delle retribuzioni ai criteri indicati dalla direttiva e soprattutto a quelli previsti all’art. 36 della Costituzione, come meglio si specificherà tra poco, è materia complessa:
– da un lato in base ad una statistica del 2019, realizzata a cura dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il tasso di copertura della contrattazione collettiva in Italia era pari al 99%. Al Cnel risultano depositati circa 1.000 ccnl.
In base ai dati resi noti dalla Cgil e relativi ad un’indagine compiuta dalla Fondazione Di Vittorio (sui dati di fonte Cnel ed Inps) “relativa a 894 Ccnl, risulta che n. 207 Ccnl firmati da Cgil, Cisl, Uil coprono 13.366.176 lavoratori dipendenti del settore privato; 687 Ccnl firmati dalle altre organizzazioni sindacali interessano 474.755 lavoratori. A questi dati bisogna aggiungere 689.355 lavoratori dipendenti per i quali il datore di lavoro non ha indicato chiaramente il Ccnl applicato”[4].
Man mano che cresce il confronto tra i partiti politici sulla proposta di introduzione per legge di un salario minimo, con il susseguirsi di slogan spesso fuorvianti, emergono elaborazioni di dati sulla quantità di lavoratori con retribuzioni inferiori a 9,00 euro l’ora che talvolta non considerano l’esistenza dei part time orizzontali, apprendisti ed altre tipologie con retribuzioni ridotte.
Da un controllo a campione, tuttavia appare che le retribuzioni annue previste nei Ccnl sottoscritti da sindacati diversi dalle federazioni aderenti a Cgil, Cisl e Uil, sono generalmente sensibilmente più basse di quelle previste negli altri Ccnl. In tali Ccnl, c.d. pirata (così definiti perché si pongono in un ambito di concorrenza sul costo del lavoro ritenuta sleale dai dirigenti di Cgil, Cisl e Uil) spesso la retribuzione oraria è sensibilmente inferiore ai 9,00 euro l’ora proposti dal PD e dal M5S. In alcuni casi è di poco superiore a 6,00 euro l’ora e, solitamente senza la previsione di una 14° mensilità. Anche i minimi previsti da qualcuno dei Ccnl sottoscritti dalle federazioni aderenti a Cgil, Cisl, Uil, specie se non rinnovati da anni, per basse qualifiche è, seppur di poco, al di sotto dei 9,00 euro l’ora.
Segnalo che dopo la prima stesura di questo articolo, esaminando la prima proposta di legge sul salario minimo legale a 9,00 euro l’ora ho notato che questa cifra oraria sarebbe comprensiva degli scatti di anzianità, delle mensilità aggiuntive e delle indennità contrattuali fisse e continuative, (come specifico in calce a questo articolo con una nota di aggiornamento del 13.07.2023)
– dall’altro lato solo una piccola quantità di imprese non adotta un Ccnl ma una regolamentazione di fonte diversa. Il caso più eclatante fu quello costituito dalla Fiat (ora FCA) che, date la disdetta alla precedente adesione a Federmeccanica (Confindustria) non aveva più l’obbligo giuridico di applicare il suo Ccnl e, quindi, poté sottoscrivere con alcuni sindacati (Fim Cisl, Uilm Uil, Fismic) un contratto aziendale di primo livello sostitutivo del precedente Ccnl. Alcune altre piccole imprese di vari settori hanno scelto la via della regolamentazione di fonte aziendale, in alcuni casi nemmeno negoziata con il sindacato (per esempio qualche piccola compagnia aerea estera operante anche in Italia);
– in assenza di una legge di attuazione dell’art. 39 della Costituzione[5] (commi 2, 3 e 4) sulla “registrazione” dei sindacati “…presso uffici locali o centrali” questi non hanno personalità giuridica ed i contratti, anche quando stipulati da Organizzazioni che rappresentano la maggioranza assoluta dei lavoratori non hanno forza di legge per tutte le imprese del settore e, quindi, per tutti i loro dipendenti ma si applicano solo alle imprese aderenti alle Associazioni datoriali stipulanti ed a quelle che volontariamente hanno scelto di applicarne uno. Peraltro, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 2665 del 1997, ha chiarito che “…nell’ipotesi di contratto di lavoro regolato dal contratto collettivo di diritto comune proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta dell’imprenditore, il lavoratore non può aspirare all’applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente fare riferimento a tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato”;
2.1 La prevalente giurisprudenza sull’art. 36 della Costituzione
“Sin dagli anni ’50, sia la dottrina giuslavoristica sia la giurisprudenza di legittimità hanno ammesso che la norma costituzionale di cui all’art. 36 della Costituzione può avere immediata efficacia nei confronti sia della legge sia dei contratti collettivi.”[6]. Ma la prevalente giurisprudenza, di merito e di legittimità, sulla determinazione della retribuzione di cui all’art. 36 della Costituzione ha, fino ad ora, legittimato anche l’applicazione della retribuzione prevista dai c.d. contratti pirata perché ha affermato il seguente principio di diritto: “…ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti inferiore a questa soglia minima, la clausola contrattuale è nulla e, in applicazione del principio di conservazione, espresso nell’art. 1419 c.c., comma 2, il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri dell’art. 36, con valutazione discrezionale; tuttavia, ove la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il giudice è tenuto ad usare tale discrezionalità con la massima prudenza, e comunque con adeguata motivazione, giacchè difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali (cfr. Cass. 1.2.2006 n. 2245)” (Cass. Sez. lavoro, Ord., 14/01/2021, n. 546 e Corte d’Appello Milano, Sez. lavoro, 05/01/2023, n. 961).
Per costante giurisprudenza è ormai acquisito che il datore di lavoro aderente ad una Associazione datoriale deve applicare il Ccnl da essa sottoscritto. Infatti, per le Sezioni Unite della Corte di Cassazione “… nell’ipotesi di contratto di lavoro regolato dal contratto collettivo di diritto comune proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta dell’imprenditore, il lavoratore non può aspirare all’applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente fare riferimento a tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato”. (Cass. civ., Sez. Unite, 26/03/1997, n. 2665)
Peraltro, la giurisprudenza prevalente ha effettuato il confronto tra i minimi delle retribuzioni previste dai diversi contratti applicabili, escludendo l’eventuale 14° mensilità ed altri istituti aventi effetti sulla determinazione della retribuzione effettiva (per esempio, scatti di anzianità).
2.2 La riscossione dei contributi previdenziali in base alla legge sul minimale contributivo
– anche in materia di riscossione dei contributi previdenziali da parte dell’Inps, pur essendo previsto il c.d. minimale contributivo (art. 1, D.L. 338/1989, conv. in L. n. 389/1989[7]) indicato come la retribuzione prevista dai Ccnl stipulati “dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale”, non essendo vigente una legge sulla misurazione della rappresentatività delle singole organizzazioni, non esistono dati istituzionalmente riconosciuti ed utilizzabili anche dalla magistratura per la comparazione tra le organizzazioni sindacali che consentano di stabilire, di volta in volta, qual è il contratto collettivo da utilizzare. I giudici, proprio per l’impossibilità di misurare in modo oggettivo la rappresentatività sindacale, generalmente, ritengono legittima l’applicazione dei “minimi” previsti dai Ccnl, anche se previsti dai c.d. contratti pirata. Per questo specifico motivo (mancata misurazione della rappresetnatività) le sentenze non accolgono le domande dell’Inps, ed anche dell’Ispettorato del lavoro, di condanna della parte datoriale[8]. La Corte di Cassazione, da molti anni, infatti, ha affermato che: “è onere dell’Inps dimostrare l’esistenza e la misura del minimale, dimostrare cioè l’esistenza, nel corrispondente settore produttivo, di un contratto collettivo stipulato dai sindacati maggiormente rappresentativi, il quale determini la retribuzione spettante in misura superiore a quella sulla base della quale il datore ha versato i contributi. Ne consegue che il medesimo istituto previdenziale dovrà anche dimostrare la maggiore rappresentatività su base nazionale delle organizzazioni sindacali stipulanti il contratto collettivo, sulle cui retribuzioni pretende di commisurare i contributi previdenziali (in tal senso Cass. n. 4074 del 23/04/1999).” (Cass. civ., Sez. lavoro, Sent. del 17/07/2009, n. 16764).
Da quanto si è appena detto si ricava che pur essendovi, in Italia, un’elevatissima applicazione dei Ccnl da parte delle imprese, vi è una non piccola quantità di imprese che applicano Ccnl sottoscritti da piccole Associazioni, in concorrenza con le federazioni aderenti a Cgil, Cisl, Uil, in cui sono previste retribuzioni sensibilmente più basse rispetto a quelle previste nei Ccnl sottoscritte dai sindacati confederali storici. Rilevare il numero di imprese che applicano un Ccnl c.d. pirata e quindi il numero di lavoratori con una retribuzione inferiore a quella prevista dai Ccnl sottoscritti dai sindacati aderenti a Cgil, Cisl, Uil, anche grazie all’ausilio dei codici contratto indicati dal Cnel, non dovrebbe essere operazione particolarmente complessa per l’Inps. La conoscenza di questo dato consentirebbe di capire l’effettiva incidenza delle basse retribuzioni conseguenza dell’applicazione dei c.d. “contratti pirata”, aldilà dei dati forniti dalla Fondazione di Vittorio ormai superati.
- La misurazione della rappresentatività sindacale
La mancata attuazione dell’art. 39 Cost. (commi successivi al primo) ha causato non poche difficoltà nell’individuazione dei criteri per la determinazione della rappresentatività delle diverse organizzazioni sindacali. Dopo la legge 14 luglio 1959, n. 741, c.d. «legge Vigorelli», la Corte costituzionale con la sentenza del 19 dicembre 1962, n. 106 superò le obiezioni sollevate in base alla considerazione che la legge delega che, nelle more dell’applicazione dell’art. 39 Cost., rendeva obbligatoria l’applicazione dei Ccnl fino a quel momento sottoscritti, era «provvisoria, transitoria ed eccezionale». Ma il tentativo successivo di dare validità erga omnes ai nuovi Ccnl, non potendosi più considerare “eccezionale”, fu dichiarata dalla Corte costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 39 Cost.
Da allora, i Ccnl non hanno validità erga omnes ma soltanto l’efficacia riconosciuta dall’ordinamento agli atti di diritto comune: vincolano soltanto chi li ha sottoscritti e le imprese che danno delega di rappresentanza alle Associazioni sottoscrittrici.
Per lungo tempo la giurisprudenza, sia della Corte di Cassazione sia della Corte costituzionale, ha elaborato alcuni parametri per l’individuazione delle Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, soprattutto per stabilire a quali soggetti fosse consentita la costituzione delle Rappresentanze sindacali aziendali ex L. 300/70, art. 19, co. 1, lett. a) e b). in un primo tempo aveva stabilito alcuni indici tra i quali l’intercategorialità, la dimensione nazionale e il numero degli iscritti.
Questi indici ritenuti legittimi dalla Corte Costituzionale (cfr. sentenze n. 54/1974, n. 334/1988 e n. 30/1990), hanno perso la loro validità per effetto dell’introduzione dell’art. 1 del D.P.R. 312/1995, in conseguenza del
referendum del 1995 che aveva comportato l’abrogazione dell’indice presuntivo di rappresentatività previsto dalla lettera a) del richiamato art. 19 (adesione ad una delle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale) e l’attribuzione del diritto di costituire una rappresentanza sindacale aziendale per le
associazioni sindacali firmatarie di un contratto collettivo non necessariamente nazionale ma anche aziendale o territoriale applicato nell’unità produttiva.
Dopo la stipula del contratto di primo livello alla FIAT (ora FCA) la Corte costituzionale è nuovamente intervenuta sulla materia con la sentenza n. 231 del 2013, con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 19, comma 1, lettera b), dello Statuto dei lavoratori nella parte in cui non prevede che la RSA possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alle trattative pur non avendo, alla fine, sottoscritto l’accordo.
Sulla regolamentazione della elezione della RSU, sostitutiva della RSA sono intervenuti accordi interconfederali sin dall’accordo concertativo del 23 luglio 1993. Oggi è vigente il c.d. Testo unico sulla rappresentanza sottoscritto il 10 gennaio 2014 tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria e dal «Testo Unico sulla rappresentanza» sottoscritto dalle stesse organizzazioni sindacali con il 26 novembre 2015 e dall’«Accordo interconfederale sulla rappresentanza» sottoscritto da Confartigianato imprese, CNA, Casartigiani, CLAAI e CGIL, CISL, UIL, il 23 novembre 2016.
3.1 Il testo unico sulla rappresentanza
Il Testo Unico sulla rappresentanza di cui agli accordi interconfederali sopra indicati, prevede che siano considerati efficaci ed esigibili per l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici i contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50% più uno della rappresentanza, determinata come media del dato associativo e del dato elettorale.
Considerato che anche la misurazione della rappresentatività di parte datoriale è rilevante ai fini della validazione dei Ccnl, con l’accordo interconfederale del 9 marzo 2018 (c.d. Patto della fabbrica) al fine di “contrastare la proliferazione di contratti collettivi… finalizzati esclusivamente a dare copertura formale a situazioni di vero e proprio ‘dumping contrattuale’… Confindustria e Cgil, Cisl, Uil… ritengono utile che si definisca un percorso condiviso anche con le altre Associazioni datoriale per arrivare ad un modello di certificazione della rappresentanza datoriale capace di garantire una contrattazione collettiva con efficacia ed esigibilità generalizzata, nel rispetto dei principi della democrazia, della libertà di associazione e del pluralismo sindacale”.
Dopo alterne vicende procedurali ed amministrative si è giunti alla stipula di appositi accordi tra le confederazioni sottoscrittrici dei suddetti accordi interconfederali e l’Inps per la raccolta dei dati degli iscritti e quelli dei risultati della elezione della RSU per il calcolo ponderato tra i due indici.
Non sono stati ancora resi noti i dati ottenuti. Tuttavia è prevedibile che le organizzazioni sindacali e datoriali che non risulteranno essere tra quelle maggiormente rappresentative proveranno a contestare la validità di tali accordi interconfederali in quanto, come per qualsiasi contratto di diritto comune, all’art. 1372 c.c.[9]), è previsto che essi hanno forza di legge solo tra le parti stipulanti e non hanno nessuna efficacia nei confronti dei terzi che non li hanno sottoscritti.
- La proposta di legge sulla misurazione della rappresentatività presentata alla Camera dei deputati nel 2022
La proposta di legge “Norme sull’accertamento della rappresentatività delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro privati – A.C. 788”, prima firmataria l’on. Chiara Gribaudo (PD) ricalca sostanzialmente il contenuto degli accordi interconfederali sottoscritti da Cgil, Cisl, Uil con Confindustria ed altre Associazioni datoriali tradizionali ed ha sostanzialmente lo scopo di dare validità, nei confronti di tutte le Associazioni, alle norme sulla misurazione della rappresentatività ed a quelle per l’individuazione delle Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (superamento del 5% come media ponderata tra dato associativo e voti riportati nella elezione delle RSU).
- Problemi di compatibilità delle norme di legge ordinaria con gli art. 36 e 39 della Costituzione
Una legge ordinaria che, anche se indirettamente, finisse per riconoscere efficacia generale (“erga omnes”) ai contratti collettivi (anche solo per effetto del riconoscimento della maggiore rappresentatività di alcune Organizzazioni sindacali) comporterebbe il fondato rischio d’incostituzionalità per contrasto con l’art. 39 Cost., in base al quale i contratti collettivi possono essere resi obbligatori per tutti solo dopo l’applicazione di una legge che ne preveda la registrazione “presso uffici locali o centrali” dei sindacati aventi “un ordinamento interno a base democratica”.
Più agevole sarebbe la scelta di varare una legge ordinaria di specificazione dei criteri di determinazione della retribuzione di cui all’art. 36 della Costituzione che affidasse l’individuazione della retribuzione “proporzionata” e “sufficiente” ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni comparativamente maggiormente rappresentativi, se realizzata con la contestuale approvazione di una legge, che precisi i criteri di misurazione della rappresentatività sindacale e che indichi i soggetti istituzionali preposti al reperimento dei dati ed alla loro elaborazione. In questo caso, infatti, i Ccnl sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative non avrebbero comunque forza di legge ma la retribuzione complessivamente prevista in essi, anche ai fini contributivi, sarebbe quella che i giudici dovrebbero necessariamente utilizzare in applicazione dell’art. 36 della Costituzione.
Come da anni sostengo, “… Posta così, sul solo versante retributivo e contributivo, nel rispetto dei vincoli costituzionali, resterebbe formalmente impregiudicata la libertà associativa di quanti si avvalgono di «contratti pirata» invocando la loro libertà di aderire ad associazioni che riescono a sottoscrivere tali contratti”. In questo caso, però, i c.d. contratti pirata si differenzierebbero dai contratti sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative “… esclusivamente per le norme diverse da quelle che agiscono direttamente sul calcolo della retribuzione”. In questo modo verrebbero meno “…gran parte dei veri motivi per cui sono stati scelti (i c.d. contratti pirata) in questi ultimi anni in misura crescente.”[10]
Anche la scelta di prevedere per legge la soglia minima di retribuzione di cui all’art. 36 della Costituzione, (come da esperienze di altri Paesi europei e come proposto dal M5S ed ora anche dal PD, per esempio a 9,00 euro l’ora) può risultare compatibile con le norme costituzionali citate. Anche in questo caso la conseguenza sarebbe quella di lasciare impregiudicati i Ccnl sottoscritti dai sindacati di categoria non aderenti a Cgil, Cisl e Uil ma coloro che li applicano, limitatamente alla retribuzione minima, sarebbero obbligati ad erogare la retribuzione prevista dalla legge, se quest’ultima risulterà maggiore di quella individuata pattiziamente.
- I possibili effetti della determinazione per legge di una soglia numerica di retribuzione minima.
Come già indicato sopra (punto 2., ultima parte) non essendo stata approvata una legge di attuazione dei commi 2 – 4 dell’art. 39 della Costituzione, in Italia, i contratti collettivi non hanno forza di legge ma hanno soltanto validità di diritto comune, cioè sono vincolanti per le associazioni sottoscrittrici, per i datori di lavoro loro associati e per quanti liberamente scelgono di applicarli.
Uscire dall’ambito di applicazione obbligatoria di un Ccnl è cosa estremamente semplice, infatti, basta dare disdetta della precedente adesione all’associazione datoriale firmataria per non esservi più obbligato. I diritti acquisiti dai lavoratori, in questo caso, resteranno impregiudicati ma, per il futuro, il datore di lavoro non avrà più l’obbligo di applicare le vecchie norme contrattuali, anche con riferimento ai futuri incrementi retributivi. Per tutto ciò che è previsto dalla legge (tipologie di rapporti di lavoro, orario di lavoro, ecc.) il datore di lavoro resterà a ciò obbligato ma per tutti gli altri aspetti di regolazione del rapporto di lavoro potrà varare una propria autonoma regolamentazione aziendale oppure potrà stipulare un apposito contratto collettivo (come fece la Fiat sin dall’accordo per Pomigliano del 2010, poi esteso agli altri stabilimenti italiani). In questo ambito (regolamentazione autonoma o contratto collettivo aziendale) la singola azienda non aderente ad alcuna Associazione datoriale firmataria di Ccnl potrà scegliere di applicare ai nuovi assunti la retribuzione minima prevista dalla legge.
Il rischio insito tra i possibili effetti di una legge sul salario minimo è quello di incentivare le imprese a dare le dimissioni dalla propria associazione datoriale firmataria di un Ccnl avente una retribuzione superiore al minimo di legge, per ridurre il proprio costo del lavoro.
La legge non potrebbe che avere efficacia per l’avvenire ma, di contro, i giudici chiamati a pronunciarsi sulla retribuzione ex art. 36 Costituzione per i periodi di rapporto di lavoro precedenti all’introduzione del salario minimo per legge, potrebbero utilizzare, soprattutto per gli ultimi anni, tra i criteri applicabili, proprio la soglia minima prevista dalla legge per decidere sulle eventuali controversie instaurate da lavoratori cui, applicandosi qualcuno dei c.d. contratti pirata veniva erogata una retribuzione più bassa.
- Motivi ed effetti della mancata attuazione dei commi 2 – 4 dell’art. 39 Costituzione
Storicamente i tre più antichi sindacati confederali[11], Cgil, Cisl e Uil, si sono opposti all’emanazione di una legge attuativa dell’art. 39 della Costituzione perché, inizialmente in un clima ancora caratterizzato dagli effetti culturali dello Stato totalitario fascista, temevano l’ingerenza dello Stato nella loro vita interna, timori ben comprensibili almeno fino all’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori.
In conseguenza di quanto appena detto, tutte le Associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, ancor oggi, sono regolate da poche e generiche norme inserite agli art. 36 – 38 del codice civile che riguardano le c.d. associazioni non riconosciute. Fermo restando il rispetto di tutte le norme di legge, le associazioni non riconosciute regolano la loro vita interna in base ai loro specifici Statuti e relativi regolamenti e deliberazioni.
Certamente la piena attuazione dell’art. 39 della Costituzione risolverebbe tutti i problemi sopra descritti ed offrirebbe un quadro normativo di efficace tutela a tutti i lavoratori dipendenti, indipendentemente dalle tipologie contrattuali di assunzione in quanto tutti i principali Ccnl contengono norme valide anche per le forme del rapporto di lavoro diverse da quello a tempo indeterminato.
Il nostro ordinamento giuridico è ormai denso di norme di legge poste a tutela ed anzi, spesso, a sostegno esplicito dell’attività sindacale. La giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità, ed anche quella della Corte Costituzionale, hanno contribuito a far diventare le libertà sindacali un patrimonio anche culturale dell’intero Paese.
Peraltro, è, ormai, acquisito che l’ordinamento interno del nostro Paese deve essere conforme a quello comunitario. Il principio, dopo la riforma del titolo V della Costituzione per effetto della legge costituzionale n. 3/2001, è ormai sancito al comma 1 dell’art. 117 Cost. ma questo principio era già pacificamente accettato dalla nostra magistratura sin dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea del 1984 nel caso Granital/Amministrazione delle finanze[12].
Ciò ha determinato un notevole innalzamento delle tutele per il libero esercizio dell’attività sindacale in quanto, nel singolo Paese, non possono essere modificate norme e principi giuridici di livello europeo che direttamente ed indirettamente garantiscono le diverse libertà, compresa quella sindacale[13].
A differenza delle altre stabili organizzazioni di persone e delle imprese fondate sul capitale sociale, le associazioni non riconosciute, come le organizzazioni sindacali, non hanno alcun obbligo di redigere un bilancio né di depositare presso pubblici uffici alcun tipo di scritture contabili. Nel caso, però, in cui vengano redatti bilanci interni questi sono utilizzabili dalla magistratura sia ai fini fiscali sia quale fonte di prova nel caso di reati contro il patrimonio dell’associazione stessa, ma non sono applicabili alle associazioni non riconosciute le norme penali inserite nel codice civile (artt. 2621 e ss.) sulle false comunicazioni sociali (reato meglio noto come falso in bilancio) in quanto il reato si consuma al momento del deposito del bilancio sociale presso gli uffici pubblici competenti a riceverlo.
Qualsiasi legge attuativa delle norme contenute all’art. 39 della Costituzione, nel prevedere i criteri distintivi dello Statuto che sancisca “un ordinamento interno a base democratica” anche a tutela della volontà degli associati di finanziare l’effettiva attività sindacale e non altri eventuali scopi dell’associazione (questione strettamente connessa alla democraticità dell’associazione) dovrebbe pur prevedere l’obbligatorietà della redazione dei bilanci ed il deposito presso appositi uffici pubblici.
In ogni caso, non sarebbe costituzionalmente illegittima una norma di legge che, integrando gli artt. 36 – 38 del codice civile, prevedesse l’obbligo, almeno per le Associazioni non riconosciute a rilevanza nazionale, di approvare e depositare i loro bilanci presso un soggetto pubblico (come per esempio il Cnel, che è costituito proprio dai rappresentanti delle stesse forze sociali nazionali). Peraltro, ciò servirebbe a sgombrare il campo dal possibile sospetto che l’insistenza di alcune delle maggiori organizzazioni sindacali a non approvare una legge attuativa dell’art. 39 della Costituzione possa, in effetti, avere tra i motivi più nobili anche un interesse non dichiarato di questo tipo.
07/07/2023
Avv. Giorgio Tessitore
Esperto in diritto del lavoro e previdenziale
Aggiornamento del 13/07/2023
Apprendo adesso che il 4 luglio u.s. è stata depositata in Parlamento, a cura di parlamentari del M5S e del PD, la proposta di legge sul “salario minimo”. Nella suddetta proposta di legge, all’art. 2, si precisa che il salario minimo a 9,00 euro l’ora è comprensivo di tutte le indennità fisse e continuative, degli scatti di anzianità ed anche delle mensilità aggiuntive. Così calcolato, il salario minimo proposto, appare di entità simile a quello previsto da vari contratti collettivi c.d. “pirata” .
Di seguito il testo integrale del primo comma dell’art. 2 della proposta di legge.
1. Per « retribuzione complessiva sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato » si intende il trattamento economico complessivo, comprensivo del trattamento economico minimo, degli scatti di anzianità, delle mensilità aggiuntive e delle indennità contrattuali fisse e continuative dovute in relazione all’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa, non inferiore, ferme restando le pattuizioni di miglior favore, a quello previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) in vigore per il settore in cui il datore di lavoro opera e svolge effettivamente la sua attività, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Il trattamento economico minimo orario stabilito dal CCNL, non può comunque essere inferiore a 9 euro lordi.
Note:
[1] i considerando inseriti nella prima parte di una direttiva dell’U.E. non sono equiparabili a norme ma sono inserite per favorire la corretta interpretazione delle norme vincolanti per gli Stati membri.
[2] Per superare i ritardi nel recepimento delle direttive europee, per la prima volta, nel 1989 fu approvata la legge n. 86 (conosciuta anche come “legge La Pergola”) poi sostituita dalla L. n. 11/2005. Il procedimento di recepimento delle direttive europee è oggi regolato dalla L. 24/12/2012 n. 234, la quale prevede che entro il 28 febbraio di ogni anno il Governo presenti una “legge di legge di delegazione europea”, alla quale può seguire un’altra entro il 31 luglio, relativa al secondo semestre dell’anno.
[3] L’art. 36 della Costituzione Italiana è il seguente: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sè e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.”
[4] https://www.cgil.it/ufficio-stampa/2023/04/03/news/fondazione-di-vittorio-lavoro-Ccnl-contratti-nazionali-cgil-cisl-uil-francesca-re-david-fulvio-fammoni-2902604/
[5] L’art. 39 della Costituzione Italiana è il seguente: “L’organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
E` condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.”
[6] G. Tessitore. Rapporto legge/contrattazione collettiva. La contrattazione di secondo livello dopo il Jobs act e il decreto dignità. Edizioni lavoro. Gennaio 2019
[7] Art. 1, comma 1, D.L. n. 338/1989: “La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”
[8] Tra i tanti casi, Trib. Napoli, sent. n. 2411/2020; Trib. di Potenza, sent. depos. il 15/07/2021, RG n. 2658/2016; Trib. di Livorno, sent. n. 198/2022; C.A. Torino, sent. n. 661-2023;
In qualche caso, per esempio la sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 1045-2022, che ha ritenuto non legittimo applicare il Ccnl sottoscritto da Anpit e Cisal per violazione del minimale contributivo sulla base della presunzione di maggiore rappresentatività delle federazioni aderenti a Cgil, Cisl e Uil
[9] Art. 1372 c.c. “Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge.
Il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge.”
[10] G. Tessitore. Rapporto legge/contrattazione collettiva – La contrattazione di secondo livello dopo il Jobs act e il decreto dignità”. Edizioni lavoro Gennaio 2019.
[11] Fino all’inizio del dopoguerra esisteva un solo sindacato, la Confederazione Generale del Lavoro – CGdL. Nel 1948 con una prima scissione nacque la Libera CGIL e poi nel 1950 nacquero la Cisl e la Uil.
[12] La Corte di giustizia dell’U.E. lo aveva già affermato nelle precedenti sentenze del 1964 e del 1978, rispettivametne Costa/Enel e Simmental/Amministrazione delle Finanze.
[13] Il riconoscimento della libertà di esercizio dell’attività sindacale è rinvenibile nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori adottata a Strasburgo il 9 dicembre 1989 (artt. 11-14). Con la successiva Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, entrata in vigore il 1° gennaio 2009, il diritto alla libertà di associazione sindacale è stato più efficacemente enunciato.