La sentenza della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, del 04/11/2021, n. 31778 con cui la Suprema Corte ha deciso uno specifico caso di attività antisindacale verificatosi prima delle modifiche introdotte all’art. 4 della L. n. 300/70 ad opera dell’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2015, è un ottimo spunto per un esame degli ambiti di applicazione delle norme sul controllo a distanza, alla luce dei mutamenti normativi e delle sentenze della Corte di Cassazione, sia civile sia penale.
Dal confronto tra la vecchia normativa sul controllo a distanza di cui all’ormai novellato art. 4 della legge n. 300/70 e la nuova regolamentazione inserita all’art. 23 del d.lgs. n. 151/2015 emergono soltanto due differenze:
- per le imprese plurilocalizzate è adesso possibile stipulare accordi di gruppo applicabili alle singole unità produttive ovvero, in assenza di accordo, è possibile rivolgersi al Ministero del lavoro e delle politiche sociali;
- mentre in precedenza il controllo a distanza volto alla tutela del patrimonio aziendale e della sicurezza, ove avesse consentito di raccogliere prove sull’inadempimento contrattuale dei lavoratori, non poteva essere utilizzato a sostegno della legittimità dei conseguenti provvedimenti disciplinari, adesso invece, previa informazione ai lavoratori delle modalità d’uso degli strumenti di effettuazione dei controlli, ciò è consentito.
Null’altro viene modificato alla preesistente normativa per cui gli orientamenti giurisprudenziali costantemente espressi prima delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 151/2015, sulle parti normative rimaste invariate, sono tutt’ora utili a comprendere a fondo la portata delle norme poste a tutela dei lavoratori e legittimanti l’azione regolatrice delle Rappresentanze sindacali istituite nei luoghi di lavoro (RSA o RSU).
Malgrado le modifiche apportate all’art. 4, L. n. 300/70, come introdotte con l’art. 23 del d.lgs. n. 151/2015, restano ferme le previsioni di cui all’art. 8 della legge n. 300/70 circa l’inutilizzabilità di informazioni su fatti estranei al rapporto di lavoro e le norme sulla privacy di cui al Regolamento U.E. n. 2016/679 e di cui al d.lgs. n. 196/2003, che la nuova norma sui controlli a distanza richiama esplicitamente.
Sull’uso delle telecamere (e su vari altri argomenti) l’Ispettorato nazionale del lavoro è intervenuto con la circolare n. 5 del 19 febbraio 2018, precisando che:
“Quanto […] al «perimetro» spaziale di applicazione della disciplina in esame, l’orientamento giurisprudenziale tende ad identificare come luoghi soggetti alla normativa in questione anche quelli esterni dove venga svolta attività lavorativa in modo saltuario o occasionale (ad es. zone di carico e scarico merci). la corte di cassazione penale (sent. n. 1490/1986) afferma infatti che l’installazione di una telecamera diretta verso il luogo di lavoro dei propri dipendenti o su spazi dove essi hanno accesso anche occasionalmente, deve essere preventivamente autorizzata da uno specifico accordo con le organizzazioni sindacali ovvero da un provvedimento dell’Ispettorato del lavoro. sarebbero invece da escludere dall’applicazione della norma quelle zone esterne estranee alle pertinenze della ditta, come ad es. il suolo pubblico, anche se antistante alle zone di ingresso all’azienda, nelle quali non è prestata attività lavorativa.”
È opportuno precisare che in alcuni casi, nei quali i sistemi di rilevazione erano esclusivamente orientati a proteggere i beni aziendali e tuttavia hanno consentito di rilevare il tentativo di furto da parte del dipendente, i licenziamenti sono stati ritenuti legittimi (cfr. cassazione n. 22662/2016 di cui si dirà più avanti), e in qualche caso particolare (cfr. corte di cassazione, sezione lavoro, n. 2168 del 30 gennaio 2013) la magistratura ha affermato il principio giuridico secondo cui il lavoratore adibito a particolari mansioni che, anche fuori dall’ambito lavorativo, si rivelasse incline a comportamenti incompatibili con la mansione svolta in azienda, può essere legittimamente licenziato in conseguenza del venir meno della fiducia nel corretto svolgimento della propria attività lavorativa.
Di seguito il testo di una significativa massima di Cassazione sull’argomento:
“I comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei perciò all’esecuzione della prestazione lavorativa, se, in genere, sono irrilevanti, possono tuttavia costituire giusta causa di licenziamento allorché siano di natura tale da compromettere la fiducia del datore di lavoro nel corretto espletamento del rapporto, in relazione alle modalità concrete del fatto e ad ogni altra circostanza rilevante in relazione alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso. (nella specie il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla s.c., aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente postale che aveva patteggiato una pena per il reato di violenza sessuale, attribuendo rilevanza al «forte disvalore sociale» dei fatti e all’eco avutane nella stampa, nonché alla posizione del dipendente, quale coordinatore di circa trenta unità addette al recapito, in ragione della responsabilità e preminenza rispetto ai componenti della squadra,
attribuendo rilievo al fatto che le condotte poste in essere fossero connotate da un «abuso delle funzioni di guida e responsabilità connesse alla veste di capo della comunità religiosa»).” Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 2168 del 30 gennaio 2013, rv. 624890.
Quindi, anche se le telecamere sono state installate per il controllo degli spazi esterni al luogo di lavoro esclusivamente per la tutela dei rischi sul patrimonio aziendale e pertanto sono state installate senza il preventivo accordo sindacale o, in assenza di questo, senza la preventiva autorizzazione dell’ispettorato del lavoro, ove tali strumenti rilevassero comportamenti del lavoratore, tenuti fuori dal suo orario di lavoro, incompatibili con la qualifica o la mansione da questo svolta, il licenziamento potrebbe essere considerato legittimo.
Inoltre, circa l’obbligo per il datore di lavoro di munirsi preventivamente di apposito contratto collettivo aziendale o di specifica autorizzazione dell’ispettorato del lavoro, ovvero nei casi di imprese plurilocalizzate, del Ministero del Lavoro, è intervenuta la sentenza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione dell’8 novembre 2016, n. 22662, che ha fornito una lettura interpretativa dell’ambito applicativo di tale disciplina, prevedendone l’esclusione per i soli “…impianti e apparecchiature di controllo poste a tutela del patrimonio aziendale dalle quali non derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività lavorativa, né risulti in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori» e tuttavia, nel caso di specie, «[…] in applicazione di tale principio, la s.c. ha cassato con rinvio la sentenza di appello, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento di una lavoratrice la cui condotta era stata accertata dal filmato di una telecamera posta a presidio della cassaforte aziendale» in quanto «il controllo difensivo richiede il vaglio della procedura contrattuale solo se da esso derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, cioè l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela dei beni estranei al rapporto stesso. con la conseguenza che il controllo è legittimo e non rientrante nella procedura richiamata qualora non riguardi in alcun modo l’attività lavorativa, ma sia unicamente diretto ad accertare eventuali condotte illecite dei lavoratori o di terzi e risulti indispensabile per la tutela del patrimonio aziendale. osserva che la corte territoriale aveva omesso totalmente
di esaminare se la ripresa degli spostamenti dei dipendenti avesse leso la dignità e la riservatezza degli stessi.”
Nella stessa sentenza, al punto 4, si legge inoltre che:
“Nel caso in disamina la condotta della lavoratrice oggetto della ripresa video non solo non atteneva alla prestazione lavorativa ma non differiva in alcun modo da quella illecita posta in essere da un qualsiasi soggetto estraneo all’organizzazione del lavoro. Il c.d. «controllo difensivo», pertanto, non atteneva all’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma era destinato ad accertare un comportamento che poneva in pericolo la stessa sicurezza dei lavoratori, oltre al patrimonio aziendale, determinando la diretta implicazione del diritto del datore di lavoro di tutelare la propria azienda mediante gli strumenti connessi all’esercizio dei poteri derivanti dalla sua supremazia sulla struttura aziendale». per la corte di cassazione, nel caso in esame ci si troverebbe di fronte ad «un controllo c.d. preterintenzionale».”
Invece, sulla rilevanza dell’accordo sindacale nei casi in cui l’uso degli impianti audiovisivi non si risolva esclusivamente nel controllo e nella tutela dei beni aziendali e della sicurezza, e possa invece riguardare contemporaneamente anche il controllo del lavoro dei dipendenti, l’interpretazione normativa data nel tempo dalla Corte di Cassazione penale ha avuto una rilevante evoluzione a favore del riconoscimento della rilevanza dell’accordo sindacale.
In passato, con la sentenza della Corte di Cassazione penale, Sezione III, n. 22611 del 17 aprile 2012, la giurisprudenza penale si è espressa sull’argomento ritenendo che, in assenza di accordo sindacale e della specifica autorizzazione amministrativa, il consenso espressamente prestato da tutti i lavoratori fosse una valida esimente della responsabilità per l’imprenditore.
Sempre la Sezione III, della Corte di Cassazione penale, a distanza di cinque anni, dalla sentenza n. 22611/2012, con la sentenza dell’8 maggio 2017, n. 22148, ha mutato radicalmente idea, negando l’efficacia scriminante del consenso acquisito dalla totalità dei lavoratori. Infatti, secondo le conclusioni della Corte di Cassazione, tale scelta imprenditoriale,
“…produce l’oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici, in quanto deputate a riscontrare, essendo titolari ex lege del relativo diritto, se gli impianti audiovisivi, dei quali il datore di lavoro intende avvalersi, abbiano o meno, da un lato l’idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per la loro potenzialità di controllo a distanza, e di verificare, dall’altro, l’effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza in modo da disciplinarne, attraverso l’accordo collettivo, le modalità e le condizioni d’uso e così liberare l’imprenditore dall’impedimento alla loro installazione.”
La nuova norma contiene un esplicito riferimento al d.lgs. n. 196/2003 (che, in attuazione della legge delega n. 127/2001, ha recepito nell’ordinamento italiano la direttiva 95/46 CE in materia di privacy). Alla luce del Regolamento UE n. 2016/679, operativo dal 25 maggio 2018, il d.lgs. n. 196/2003 è stato modificato dal d.lgs. n. 101 del 10 agosto 2018, attuativo della delega ex art. 13 della legge n. 163/2017. Il nuovo decreto legislativo è stato pubblicato nella G.U. n. 205 del 4 settembre 2018.
L’Ispettorato nazionale del lavoro, il 18 giugno 2018, ha emanato una circolare avente a oggetto «Indicazioni operative sul rilascio dei provvedimenti autorizzativi ai sensi dell’art. 4 della legge n. 300/1970», con la quale si spingono le sedi periferiche a una maggiore attenzione nelle verifiche circa la sussistenza delle esigenze di sicurezza per le quali vengono spesso richieste le autorizzazioni all’installazione dei dispositivi di controllo a distanza.
Nella circolare sopra citata si legge che “…va sottolineato che l’oggetto dell’attività valutativa, in fase istruttoria, consiste in un analitico esame delle motivazioni che giustificano e legittimano l’utilizzo di strumenti dai quali derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori nonché della correlazione tra le modalità di impiego di tali strumenti e le finalità dichiarate. pertanto si ritiene che, nel caso di richieste di autorizzazione legate ad esigenze di «sicurezza del lavoro», vadano puntualmente evidenziate le motivazioni di natura prevenzionistica che sono alla base dell’installazione di impianti audiovisivi e altri strumenti di potenziale controllo a distanza dei lavoratori corredate da una apposita documentazione di supporto. Più specificatamente appare necessario che le affermate necessità legate alla sicurezza del lavoro trovino adeguato riscontro nell’attività di valutazione dei rischi effettuata dal datore di lavoro e formalizzata nell’apposito documento (dvR).”
Aldilà degli aspetti penalmente rilevanti messi in evidenza da diverse sentenze ed in particolare da quelle della Corte di Cassazione penale sopra citate, la questione dell’introduzione degli impianti di videosorveglianza in assenza di accordo sindacale o di autorizzazione amministrativa, secondo un orientamento, tutt’ora valido, della giurisprudenza di legittimità, ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, del 04/11/2021, n. 31778, valutando i fatti nel singolo caso specifico, nel caso di assenza di informazione e negoziato sindacale, ben potrebbe prestarsi all’instaurazione del ricorso per condotta antisindacale di cui all’art. 28 dello statuto dei lavoratori. Infatti, nel caso trattato nella sentenza appena citata, seppur in applicazione dell’art. 4, L. 300/70 vecchio conio, si è affermato il seguente principio di diritto: “In tema di controlli a distanza, rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 4, comma 2, st.lav. (nel testo anteriore alle modifiche di cui all’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2015), richiedendo quindi l’osservanza delle garanzie ivi previste, i controlli richiesti dalle esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza sul lavoro, tra le quali rientra anche quella di assicurare la pubblicità ad una prova di esame indetta dalla Pubblica Amministrazione. (Nella specie, la S.C. ha respinto il ricorso del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti avverso la sentenza della corte d’appello, che aveva qualificato come condotta antisindacale l’installazione, senza previa intesa sindacale, di apparecchiature per la ripresa audiovideo degli esami di guida)”.
La Corte di Cassazione penale, Sez. III, con la sentenza del 15/07/2019, n. 50919 è tornata ancora sull’argomento e, confermando l’orientamento già espresso con la sentenza n. 22148/2017, ha affermato che “L’installazione in azienda, da parte del datore di lavoro, di impianti audiovisivi – assoggettata ai limiti previsti dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori anche se da essa derivi solo una mera potenzialità di controllo a distanza sull’attività lavorativa dei dipendenti – deve essere preceduta dall’accordo con le rappresentanze sindacali. Ove il datore di lavoro provveda senza rispettare l’obbligo del preventivo accordo, si configura un comportamento antisindacale dello stesso, reprimibile con la speciale tutela approntata dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori.”
Nella parte iniziale della sentenza in cui sono descritti gli aspetti essenziali dei precedenti gradi di giudizio, si legge che “Il Tribunale di Milano, con sentenza del 14 gennaio 2019, ha condannato B.R., previa concessione in suo favore delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di Euro 1.000,00 di ammenda, avendolo riconosciuto responsabile della violazione del D.Lgs. n. 196 del 2006, artt. 114 e 171 (recte: 2003) e della L. n. 300 del 1970, art. 4, comma 2 (recte: comma 1) e art. 38 per avere installato all’interno della propria azienda n. 16 telecamere di un impianto di videosorveglianza – al dichiarato scopo di controllare l’accesso al locale e fungere da deterrente per eventi criminosi, ma – in grado di controllare i lavoratori nell’atto di espletare le loro mansioni, in assenza di un preventivo accordo sindacale ovvero della autorizzazione della sede locale dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
Il Tribunale, nell’affermare la responsabilità del prevenuto ha rilevato che questi, sebbene avesse rimosso l’impianto in questione una volta che la sua istallazione gli era stata contestata, non aveva provveduto al pagamento della somma determinata a titolo di oblazione amministrativa, ritenendo che il fatto da lui compiuto non fosse penalmente rilevante.
Ha, altresì, considerato che il B. aveva chiesto agli organi periferici dell’Ispettorato competente il rilascio della autorizzazione ma, prima del suo conseguimento, aveva installato i predetti apparecchi.
A nulla, ad avviso del Tribunale, poteva valere la circostanza che l’imputato avesse depositato una liberatoria sottoscritta da tutti i propri dipendenti, e precedentemente inviata al detto Ispettorato, posto che il documento in questione non solo era stato formato successivamente alla materiale realizzazione della condotta a lui ascritta ed alla constatazione della sua esistenza, ma, in ogni caso, alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali di questa Corte, esso non poteva fungere da sostituto o della esistenza dell’accordo sindacale ovvero della autorizzazione rilasciata dall’organo pubblico.”
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l’Ordinanza del 02/03/2022, n. 6876 ha ulteriormente chiarito quali requisiti devono essere posseduti affinche i singoli sindacati (le loro sedi locali) siano legittimati a proporre l’azione giudiziaria per attività antisindacale: è sufficiente che si tratti di un’organizzazione avente diffusione nazionale con una presenza operativa in “buona parte del territorio nazionale” e non è necessario che sia sottoscrittice di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva. Con l’Ordinanza n. 6876/2022 si è, infatti, affermato il seguente principio di diritto: “In ordine ai profili di legittimazione attiva necessari perché una organizzazione sindacale possa esercitare l’azione di repressione della condotta antisindacale, non devono essere confusi i presupposti di cui all’art. 19 della legge n. 300 del 1970 per la costituzione di rappresentanze sindacali aziendali (che richiedono la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali, o anche provinciali o aziendali, purché applicati in azienda, oppure, a seguito dell’intervento additivo della Corte Costituzionale con sentenza n. 231/2013, la partecipazione del sindacato alla negoziazione relativa agli stessi contratti), con quelli meno stringenti relativi alla legittimazione prevista ai fini della proposizione di un’azione ai sensi dell’art. 28 della stessa legge, per cui è sufficiente che l’associazione sindacale abbia carattere nazionale (Nel caso di specie, rigettando il ricorso di parte datoriale, la Suprema Corte ha ritenuto incensurabile la sentenza gravata avendo nella circostanza la corte del merito accertato, sulla base della copiosa documentazione prodotta, che l’organizzazione controricorrente avesse la legittimazione attiva, poiché provvista del carattere “nazionale” richiesto dall’art. 28 della legge n. 300 del 1970, essendo “operativa in una buona parte del territorio nazionale” nonché orientata “alla tutela dei lavoratori a questo medesimo livello”).”
In sostanza, anche dopo le modifiche introdotte all’art. 4, L. n. 300/70 per effetto del comma 1, art. 23, d.lgs. n. 151/2015, gli impianti di videosorveglianza possono essere installati senza il preventivo confronto ed accorso con le Rappresentanze sindacali operanti in azienda o, in mancanza, senza l’autorizzazione preventiva della sede locale dell’Ispettorato nazionale del lavoro soltanto quando si vogliono controllare a distanza i beni aziendali ma senza che ciò possa, nemmeno saltuariamente, comportare il controllo dei lavoratori. Ove detti impianti rilevassero fatti criminosi posti in essere da lavoratori dipendenti della stessa azienda, il licenziamento disposto di conseguenza, in applicazione delle norme contrattuali e di legge in materia, potrà essere ritenuto legittimo. Diversamente, gli impianti di videosorveglianza installati in ambienti in cui si svolge, anche solo parzialmente l’attività lavorativa, possono essere legittimamente installati solo previo accordo sindacale o, in assenza di questo, previa autorizzazione della sede locale dell’Inl. Non costituisce valido sostituto dell’accoro sindacale il consenso di tutti i dipendenti, anche se espresso preventivamente all’installazione dell’impianto, in quanto la norma di legge volutamente assegna alle rappresentanze sindacali interne la facoltà di raggiungere l’accordo in considerazione della maggiore debolezza dei singoli lavoratori nel rapporto con l’imprenditore o con chi lo rappresenta.
In caso di utilizzazione, durante la prestazione lavorativa, di dispositivi che consentano la videosorveglianza o la sorveglianza a distanza della prestazione lavorativa, con le nuove norme introdotte con il comma 1 dell’art. 23 del d.lgs. n. 151/2015, previa informazione ai lavoratori delle modalità d’uso degli strumenti di effettuazione dei controlli, potranno legittimamente essere promosse azioni disciplinari ed i provvedimenti conseguenti, anche se sostenuti soltanto da tali prove, potranno essere validamente difesi in un eventuale giudizio di impugnazione.
Partanna, lì 10/07/2022
Avv. Giorgio Tessitore
esperto in diritto del lavoro e previdenziale
convenzionato con il patronato Inas Cisl
[1] L’argomento è già stato trattato nel libro dal titolo «Rapporto legge/contrattazione collettiva. La contrattazione di secondo livello dopo il jobs act e il «decreto dignità”». G. Tessitore. Edizioni lavoro. 2019, pagg. 113 – 117