Sommario: Premessa. 1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 22 del 22 febbraio 2024. 1.1. Effetti della sentenza. Casi di nullità del licenziamento ai quali si estende la reintegrazione. 1.2. L’Ordinanza della Corte di Cassazione di rimessione alla Corte Costituzionale. 2. Il caso del settore autoferrotranvieri che ha indotto la Corte di Cassazione a porre la questione di legittimità costituzionale. 3. Le norme applicabili nel settore autoferrotranvieri per le sanzioni e per le procedure disciplinari. 3.1. La procedura disciplinare nel settore autoferrotranvieri. 3.2. Chiarimento ulteriore sull’obbligatorietà dell’intervento del Consiglio di disciplina. 4. Ulteriori questioni nascenti da precedenti sentenze della Corte Costituzionale. 5. Norme vigenti sulla competenza a nominare il Presidente ed i componenti del Consiglio di Disciplina.
Premessa
La decisione della Corte Costituzionale (sentenza n. 22 del 22 febbraio 2024) ha avuto origine per effetto dell’impugnativa di un licenziamento (c.d. destituzione) comminato da un’impresa del settore autoferrotranvieri (nel settore si applica ancora il Regio Decreto n. 148/1931 integrato da norme contenute all’art. 7, L. n. 300/1970).
- La sentenza della Corte Costituzionale n. 22 del 22 febbraio 2024 (si può scaricare al seguente indirizzo: https://www.avvocatotessitore.it/documenti-utili/ )
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 22 del 22 febbraio 2024 ha dichiarato costituzionalmente illegittima la norma contenuta all’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 23/2015 (regolate il c.d. contratto a tutele crescenti nell’ambito del c.d. Jobs act) limitatamente alla parola “espressamente”.
Per effetto di questa sentenza della Corte Costituzionale sono soggetti al rimedio della reintegrazione anche i licenziamenti nulli per violazione di norme imperative di legge, anche nei casi in cui la reintegrazione non è stata espressamente prevista dal legislatore. Quindi, si riduce parzialmente l’area dei licenziamenti illegittimi per i quali è previsto il risarcimento del danno mentre si incrementa l’area dei licenziamenti ingiusti per i quali ora è certamente prevista la reintegrazione del posto di lavoro.
Tra questi casi vi è una varietà di licenziamenti comminati in violazione di norme imperative di legge per i quali però le norme vigenti non prevedono espressamente il rimedio della reintegrazione in luogo del risarcimento economico del danno.
1.1. Effetti della sentenza. Casi di nullità del licenziamento ai quali si estende la reintegrazione.
Come segnalato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 22/2024, “…tra le ulteriori ipotesi in cui manca un’espressa previsione della nullità, significative sono quelle del licenziamento in periodo di comporto per malattia (in violazione dell’art. 2110 cod. civ.); del licenziamento per motivo illecito art. 1345 cod. civ., quale ex quello ritorsivo del dipendente (il cosiddetto whistleblower), che segnala illeciti commessi dal datore di lavoro (art. 2, comma 2-quater, della legge 30 novembre 2017, n. 179, recante «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato»); del licenziamento intimato in violazione del “blocco” dei licenziamenti economici durante il periodo emergenziale, disposto dall’art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27, e successive proroghe; del licenziamento intimato in contrasto con l’art. 4, comma 1, della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge); del licenziamento in violazione del diritto alla conservazione del posto di cui all’art. 124, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).”
1.2. L’Ordinanza della Corte di Cassazione di rimessione alla Corte Costituzionale
La sentenza della Corte Costituzionale è stata emessa a seguito del procedimento originato dall’Ordinanza della Corte di Cassazione civile, Sez. lavoro del 07/04/2023, n. 9530 che aveva sollevato proprio questo dubbio di legittimità costituzionale sorto in un caso relativo alla nullità di un licenziamento disciplinare (c.d. destituzione) comminato da una impresa del settore autoferrotranvieri ad un suo dipendente. La questione sollevata dalla suddetta Ordinanza della Corte di Cassazione riguardava la legittimità dell’inserimento della parola “esclusivamente” inserita al comma 1 dell’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015 senza che un corrispondente criterio direttivo contenuto nella legge di delegazione (L. 10 dicembre 2014, n. 183, art. 1, comma 7, lett. c). Ormai, dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 22/2024, è evidente che si trattava di un eccesso di delega in quanto il Parlamento nell’indicare al Governo i criteri direttivi per la redazione del decreto legislativo non aveva scelto di indicare questa limitazione.
- Il caso del settore autoferrotranvieri che ha indotto la Corte di Cassazione a porre la questione di legittimità costituzionale
Il caso scatenante è relativo ad un licenziamento che un’azienda del settore autoferrotranvieri ha comminato ad un suo dipendente senza il richiesto intervento del Consiglio di disciplina. Il Tribunale di Pisa non aveva accolto le richieste del lavoratore ma, in secondo grado, la Corte d’Appello di Firenze aveva dichiarato nullo il licenziamento ma, tuttavia, ha dichiarato estinto il rapporto di lavoro intercorso con il datore di lavoro (società di gestione del trasporto urbano in diverse province della Toscana), condannando l’impresa di trasporto al pagamento di un’ indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. La Corte di Cassazione, l’Ordinanza del 07/04/2023, n. 9530, ritenendo non manifestamente inforndata l’eccezione di costituzionalità presentata dalla difesa del lavoratore, ha sospeso il giudizio e fatto ricorso alla Corte Costituzionale.
La Corte di Cassazione, recentemente, con la sentenza del 06/03/2023 n. 6555, si era già espressa per la nullità del licenziamento comminato ad un dipendente di una impresa del settore autoferrotranvieri soggetta all’applicazione del Regio Decreto n. 148/1931.
Sulla base delle interpretazioni fornite dalla Suprema Corte di Cassazione e di alcuni Giudici del merito (Tribunali e Corti d’Appello) di seguito si riassumono le principali questioni giuridiche relative alla procedura ed all’irrogazione di sanzioni disciplinari a dipendenti di aziende operanti nel settore del Trasporto pubblico locale (Ccnl autoferrotranvieri). In stretta connessione, più avanti saranno prese in esame le competenze istituzionali per la nomina dei Consigli di Disciplina nelle imprese del settore autoferrotranvieri.
E’ utile precisare subito che la sanzione della destituzione (cioè il licenziamento) è nulla in mancanza della delibera del Consiglio di Disciplina, ex R.D. n. 148/1931. In questo senso si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione con l’ordinanza del 6 marzo 2023, n. 6555. Orientamento peraltro confermato con la successiva sentenza del 07/03/2023, n. 6765 nella quale si afferma il seguente principio di diritto: “In materia di procedimento disciplinare a carico degli autoferrotranvieri, l’art. 53 dell’allegato A al r.d. n. 148 del 1931 prevede una procedura articolata in più fasi, secondo la quale, contestato “l’opinamento” reso dal direttore o dal funzionario a ciò delegato circa la sanzione da irrogare, ove il lavoratore richieda la decisione da parte del Consiglio di disciplina, la competenza ad adottare il provvedimento disciplinare spetta solo a quest’ultimo, organo collegiale “terzo”; conseguentemente, divenuto carente di potere il datore di lavoro, la sanzione da questi adottata è affetta da nullità, rientrante nella categoria di quelle di protezione.”
- Le norme applicabili nel settore autoferrotranvieri per le sanzioni e per le procedure disciplinari
Il R.D. n. 148/1931, all. A, è tutt’ora vigente. Era stato abrogato dal D.L. 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, facendone salva l’applicazione “fino al primo rinnovo del CCNL di settore e, comunque, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto” ma, successivamente, il D.L. 20 giugno 2017, n. 91, convertito con modificazioni dalla L. 3 agosto 2017, n. 123, ha disposto (con l’art. 9-quinquies, comma 1) l’abrogazione del comma 12-quinquies dell’art. 27 del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, il quale aveva previsto l’abrogazione del R.D. n. 148/1931.
Come si erano già espressi altri Tribunali del merito (cfr. Corte d’App. di Firenze n. 168/2020) la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6555/2023, in un caso di provvedimento disciplinare espulsivo di una lavoratrice del settore autoferrotranvieri, ha riaffermato il principio di diritto secondo il quale l’omissione di una delle fasi del procedimento disciplinare, previsto dall’art. 53 dell’allegato A al Regio Decreto 8 gennaio 1931, n. 148 comporta la nullità della sanzione disciplinare.
L’inadempimento aziendale (non aveva provveduto agli adempimenti previsti agli artt. 53 e 54 del R.D. n. 148/1931), seppur non causato dall’azienda stessa ma determinato dall’omissione della nomina da parte dell’Istituzione competente, aveva comportato l’impossibilità per la ricorrente di chiedere al previsto Consiglio di Disciplina di pronunciarsi sulla legittimità del provvedimento disciplinare. Vizio insanabile del procedimento disciplinare che ha portato alla dichiarazione giudiziale di nullità del licenziamento.
In questi casi, si tratta della c.d. “nullità di protezione” (Cass. n. 12770/2019; Cass. n. 13804/2017), atteso che la procedura garantista prevista in materia è inderogabile ed è fondata su un evidente scopo di tutela del lavoratore.
Al riguardo, la Cassazione ha ribadito che l’Allegato A al R.D. n. 148 cit. – di cui va riconosciuta la perdurante vigenza (Corte Cost. n. 188/2020) – prevede, per le mancanze punibili con la proroga del termine per l’aumento dello stipendio o della paga, la retrocessione o la destituzione, una speciale procedura disciplinare maggiormente garantista, per il dipendente del settore autoferrotranviario, rispetto a quella disciplinata dall’art. 7, L. 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori) per la generalità degli altri lavoratori non rientranti nel campo di applicazione di norme speciali di legge come è il citato R.D. n. 148/1931.
Quindi, ai lavoratori del settore autoferrotranvieri, in materia disciplinare, si applicano le norme dell’allegato A, R.D. n. 148/1931 integrate con le norme procedurali previste all’art. 7 della L. n. 300/1970, seppur limitatamente ai passaggi procedurali non esplicitamente previsti nel citato R.D.
3.1. La procedura disciplinare nel settore autoferrotranvieri
In base al combinato disposto delle norme contenute nell’allegato A del R.D. n. 148/1931 e quelle previste all’art. 7, L. n. 300/1970, il procedimento disciplinare, per le mancanze meno gravi segue le vie interne all’impresa ed il provvedimento è deciso dal Direttore generale. Avverso il provvedimento del Direttore, il lavoratore può, però, presentare ricorso gerarchico al C.d.A. Non è, però, prevista la possibilità per il lavoratore di chiedere il successivo intervento del Consiglio di disciplina e secondo la recente giurisprudenza di merito “…deve escludersi che nella fattispecie, alla luce della maggior garanzia che predispone la disciplina specifica degli autoferrotranvieri, possa trovare applicazione, anche solo in via integrativa, la procedura di convocazione del collegio di conciliazione prevista dall’art. 7 st. lav.” (Corte d’Appello di Roma, sentenza n. 449/2023). Tuttavia qualche precedente pronuncia di segno diverso potrebbe ancora spingere altri Giudici a modificare l’orientamento sul punto. Infatti, nella stessa sentenza della Corte d’Appello di Roma sopra citata, si legge “…deve essere escluso che alla fattispecie possa trovare applicazione l’art. 90 dell’attuale C.C.N.L. A., la quale prevede l’applicabilità ai lavoratori dell’art. 7 sopra richiamato. Difatti l’articolo è inserito nel titolo XII del c.c.n.l. dedicato al “Trattamento normativo degli addetti all’area operativa servizi ausiliari della mobilità”, ed inoltre nell’art. 77 è specificamente previsto che “le disposizioni di cui al presente titolo, si applicano al personale addetto ai servizi ausiliari per la mobilità inquadrato ai sensi della “Nuova classificazione del personale addetto ai servizi di trasporto pubblico e della mobilità. Allo stesso trovano applicazione le norme di cui al presente testo unico per le materie non espressamente regolate dalle seguenti disposizioni”. Ne discende che la previsione non è applicabile al personale autoferrotranviere, ossia all’operatore di esercizio. In tale parte il precedente di altra Sezione di questa Corte non può essere condiviso.”
A mio parere, per i provvedimenti inferiori alla proroga del termine per l’aumento dello stipendio o della paga, alla retrocessione ed alla destituzione, considerato che nel R.D. n. 148/1931 non è previsto il ricorso al Consiglio di disciplina, è lecito che il lavoratore possa chiedere la costituzione del Collegio di Conciliazione ed arbitrato, ex art. L. n. 300/1970 mentre questa opzione non è applicabile per le sanzioni più gravi per le quali è, infatti, previsto il diritto del lavoratore di chiedere il pronunciamento del Consiglio di Disciplina.
E’ possibile che pronunciamenti apparentemente contrastanti tra Giudici diversi siano in realtà riconducibili all’applicazione di differenti provvedimenti disciplinare: in un caso, legittimante il ricorso al Collegio di Conciliazione ed arbitrato, protrebbe essersi trattato di un giudizio su di un provvedimento non più grave della sospensione dal servizio e dalla retribuzione e, nell’altro caso, di un provvedimento disciplinare più grave per il quale non è prevista questa modalità della contesazione in quanto con il R.D. n. 148/1931 si prevede l’alternativo ricorso al Consiglio di disciplina.
Come esplicitamente previsto nel penultimo comma dell’art. 7 della L. n. 30071970, resta fermo che, in caso di legittima richiesta di costituzione del Collegio di conciliazione ed arbitrato (in caso di sanzioni meno gravi, fino alla sospensione dal servizio e dalla retribuzione) il datore di lavoro, entro dieci giorni dalla richiesta di nomina del proprio arbitro in seno al suddetto Consiglio, può non accettare di contribuire a dar vita a tale organismo e di presentare, in alternativa, ricorso al Giudice del lavoro territorialmente competente, per il tramite di un avvocato. Anche in questo caso la sanzione resta sospesa fino a conclusione del processo ed il lavoratore, in caso di soccombenza sarà condannato a pagare le spese di lite al proprio datore di lavoro, salvo il verificarsi dei casi per i quali è prevista la compensazione delle spese, ex art. 92 c.p.c.
Per le mancanze non lievi per le quali può essere impartita una sanzione maggiore della sospensione, il procedimento è articolato come segue:
- deve innanzitutto essere notificata al dipendente la contestazione dell’infrazione, da parte del Direttore o dai funzionari incaricati, con invito all’interessato affinché presenti le proprie giustificazioni. Il lavoratore, coerentemente con i principi costituzionali e specificamente con il combinato disposto delle norme contenute nel R.D. n. 148/1931 e quelle contenute all’art. 7 della L. n. 300/1970, ha diritto, a richiesta, “di essere sentito oralmente a propria difesa con l’eventuale assistenza di un rappresentante sindacale, anche nel caso in cui abbia comunicato le proprie giustificazioni scritte, ed ancorché queste appaiano già di per sé ampie ed esaustive” (Cass. n. 26115/2014; Cass. n. 11543/2012);
- dopo le eventuali giustificazioni del lavoratore, è prevista una relazione scritta (corredata dall’opportuna documentazione delle indagini svolte) in cui il/i funzionario/i delegato/i dal Direttore riassume/ono i fatti emersi, le valutazioni e le considerazioni riguardanti il fatto e le circostanze che possono influire sia a carico che a favore del lavoratore ed indica/no le proprie conclusioni circa le violazioni accertate ed i responsabili del fatto stesso;
- dopo la suddetta relazione, il Direttore (o un suo delegato) esprime, sulla base della soprarichiamata relazione, il c.d. opinamento circa la punizione da irrogare, tra quelle previste dagli artt. 43 – 45 R.D. n. 148/1931[1], provvedendo a darne comunicazione all’interessato;
- giunti a questo punto il dipendente, entro cinque giorni dalla notifica dell’opinamento, ha diritto di presentare, oralmente o per iscritto, eventuali nuove difese concernenti non solo il merito dell’addebito ma anche quello della natura e dell’entità della sanzione indicata. In mancanza di giustificazioni, il provvedimento disciplinare diviene definitivo ed esecutivo;
- tuttavia, è prevista la possibilità per il lavoratore, le cui giustificazioni non siano state accolte, di chiedere l’intervento del Consiglio di Disciplina (costituito presso ciascuna azienda o autonoma dipendenza ex art. 54, R.D. n. 148 cit.). La richiesta deve essere presentata nel termine perentorio di dieci giorni dalla conferma della sanzione, con conseguente diritto di prendere visione degli atti di indagine istruttoria e di essere ulteriormente ascoltato (art. 53, commi 9 e 10, R.D. n. 148 cit.). Se richiesto dal lavoratore, nel termine di legge (10 giorni), l’intervento del Consiglio di Disciplina diventa obbligatorio per la delibazione definitiva sulle conseguenze disciplinari della contestazione effettuata dall’impresa. Come riaffermato dalla Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 6555/2023, l’omesso intervento del Consiglio, nonostante la rituale richiesta del dipendente, vizia “irrimediabilmente” il procedimento disciplinare conclusosi con l’irrogazione della sanzione direttamente da parte datoriale. Nel caso in cui il mancato intervento del Consiglio di Disciplina sia dovuto alla sua inesistenza causata dall’inadempimento nell’effettuare le nomine da parte dell’Istituzione regionale preposta a tale scopo, il provvedimento è ugualmente nullo e non ha alcun rilievo il fatto che la mancata costituzione del Consiglio non sia un inadempimento imputabile al datore di lavoro ma all’inerzia dell’Istituzione e/o enti pubblici competenti ad esercitare il potere di nomina dei relativi componenti (Cass. n. 12770/2019);
- avverso la decisione del Consiglio di Disciplina è possibile il ricorso al Giudice del Lavoro, con il successivo grado d’appello ed il ricorso alla Corte di Cassazione.
3.2. Chiarimento ulteriore sull’obbligatorietà dell’intervento del Consiglio di disciplina
Potrebbe apparire contrastante con le norme precedenti quanto previsto all’art. 54 del R.D. n. 148/1931:
“Le punizioni per le mancanze di cui agli articoli 43, 44 e 45 sono inflitte con deliberazione del Consiglio di disciplina costituito presso ciascuna azienda o ciascuna dipendenza da azienda con direzione autonoma …”
Il ricorso al Consiglio di Disciplina, in base alle norme contenute all’art. 53, commi 9 e 10, è una opzione lasciata alla libera scelta del lavoratore destinatario di una delle sanzioni più gravi della sospensione. infatti al comma 10 dello stesso art. 53 è previsto che il termine decadenziale entro cui il lavoratore può esercitare questo diritto è di dieci giorni.
In effetti, il dubbio è stato risolto dalla giurisprudenza di legittimità. Nella sentenza n. 6555/2023 la Corte di Cassazione chiarisce che: “…è proprio in funzione di tale tutela che l’art. 53 RD pone, per il caso dell’opinamento delle sanzioni più gravi, una forma di garanzia procedurale ulteriore (del tutto speciale anche rispetto a quella che poi imporrà l’art. 7 della L. n. 300 del 1970), costituita dal deferimento, su istanza del lavoratore, della decisione sanzionatoria ad un organo terzo rispetto al datore di lavoro stesso”. In proposito rilevava “come l’eventualità del ricorso al Consiglio di disciplina non equivalga affatto, come sembra conseguire al percorso argomentativo dell’azienda, alla facoltatività dello stesso, se non per parte del lavoratore. Cioè a dire che, sebbene non sia previsto come obbligatorio in ogni caso di opinamento delle sanzioni più gravi, laddove però il lavoratore ne faccia richiesta nel termine stabilito dalla norma, l’intervento del Consiglio diventa obbligatorio per la delibazione definitiva sulle conseguenze disciplinari della contestazione a suo tempo effettuata dall’impresa.”
In ogni caso, le norme di legge che prevedono le fasi sopra descritte sono inderogabili. Cioè non possono essere modificate nemmeno per effetto della comune volontà delle parti. Quindi, non possono essere omesse o concentrate e perseguono lo scopo di consentire al lavoratore, di esercitare, nei modi di legge, il diritto di difesa, per cui l’inosservanza delle previsioni di cui agli artt. 53 e 54 R.D. n. 148/1931 determina la nullità della sanzione irrogata. In questi casi, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 22 del 22 febbraio 2024, essendo il licenziamento “riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge” ne discende che il Giudice dovrà applicare il rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro e del risarcimento del danno, pari alle mensilità perse fino alla reintegrazione stessa.
Nel caso di specie, la Corte di Cassazione con sentenza n. 6555/2023, ha dichiarato la nullità della destituzione, con conseguente reintegrazione della dipendente sul luogo di lavoro e condanna della società datrice al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, dal momento che la sanzione disciplinare era stata irrogata direttamente dall’azienda senza che fosse stato attivato il procedimento dinanzi al Consiglio di Disciplina, nonostante la rituale richiesta della lavoratrice. Ed a nulla rileva il fatto che il Consiglio di disciplina non fosse stato costituito per inadempimento delle istituzioni competenti.
- Ulteriori questioni nascenti da precedenti sentenze della Corte Costituzionale
Inoltre, nel merito dei provvedimenti disciplinari previsti dal R.D. n. 148/1931, ed in particolare nel caso di adozione del provvedimento della retrocessione, occorre tenere presente che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 188/2020, ha operato una distinzione tra la retrocessione comminata come provvedimento adottato a fronte di una delle mancanze a tal scopo indicate dal R.D. citato e la retrocessione applicata come soluzione disciplinare per una mancanza che avrebbe potuto comportare l’applicazione del provvedimento della destituzione.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 188/2020 non si è pronunciata sull’applicazione diretta della retrocessione in quanto il caso trattato riguardava l’applicazione di questo rilevante provvedimento conservativo del rapporto in alternativa alla destituzione ed ha, quindi, dichiarato «…inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 37, primo comma, numero 5),»
Invece, sulla retrocessione come provvedimento adottato allo scopo di evitare il licenziamento, ha dichiarato le eccezioni di incostituzionalità «…non fondate nella parte in cui censurano la prevista possibilità di applicare la retrocessione quale sanzione “sostitutiva” della destituzione».
Le argomentazioni utilizzate dalla Corte Costituzionale sono state incentrate esclusivamente sulla valutazione dell’estrema rilevanza del provvedimento della destituzione anche considerando che la “retrocessione” a mansioni inferiori, anche in costanza del vecchio art. 13 Statuto (che imperativamente vietava il demansionamento) era stata più volte prevista da apposite leggi[2] in specifici nei casi in cui ciò serviva ad evitare il licenziamento del lavoratore, e da sentenze della Corte di Cassazione in altri casi in cui comunque il demansionamento serviva ad evitare il licenziamento.
Per quel che riguarda, invece, la sanzione prevista all’art. 43 del R.D. n. 148/1931, consistente nella proroga del termine per l’aumento dello stipendio o della paga non dovrebbero sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale in quanto in base ai principi di diritto affermati sin qui dalla Corte di Cassazione, ai fini della determinazione della retribuzione “proporzionata e sufficiente” ex art. 36 della Carta Costituzionale, non tutte le voci della retribuzione contrattuale in astratto applicabile devono essere necessariamente prese in considerazione e, comunque, si tratterebbe soltanto di un rinvio del termine per l’incremento della retribuzione riconosciuta e non di una diminuzione dell’importo precedentemente legittimamente erogato
Alla luce di quanto si può dedurre dai principi di diritto espressi fin ora dalla Corte di Cassazione, nello scegliere le sanzioni disciplinari, le imprese, devono prestare molta attenzione soprattutto ai rischi di incostituzionalità della diretta applicazione della retrocessione (non come sanzione sostitutiva della destituzione)
- Norme vigenti sulla competenza a nominare il Presidente ed i componenti del Consiglio di Disciplina.
Tenuto conto del progressivo decentramento di funzioni amministrative nazionali verso le Regioni ed in particolare delle norme specifiche per questo settore[3] e soprattutto a seguito dell’art. 102, comma l, lett. b) del D.Lgs. 31/03/1998, n. 112 “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo l della legge 15 marzo 1997, n. 59” che prevede la soppressione delle funzioni amministrative relative alla nomina dei consigli di disciplina;” alcune Regioni hanno varato proprie leggi per disciplinare la nomina dei singoli Consigli di Disciplina delle imprese operanti nel loro territorio[4] provvedendo alla nomina dei Consigli di Disciplina delle aziende operanti nel loro territorio, oppure, hanno predisposto la disciplina amministrativa applicabile per la nomina dei suddetti Consigli con proprio atto deliberativo[5].
In Sicilia, la nomina dei Consigli di Disciplina è formalizzata con Decreto del Dirigente Generale del Dipartimento lavoro dell’Assessorato regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro, previa designazione del Presidente dello stesso Consiglio di Disciplina da parte del Dipartimento Regionale Infrastrutture, Mobilità e Trasporti.
Partanna, 24/02/2024
Avv. Giorgio Tessitore
Esperto in relazioni industriali, diritto del lavoro, sindacale e previdenziale
[1] 43: proroga del termine per l’aumento dello stipendio o della paga; 44: retrocessione; 45 destituzione
[2] Art. 4, comma 4, L. 12 marzo 1999, n. 68, recante “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” regolante il demansionamento di lavoratori divenuti disabili;
art. 4, comma 11, della L. 23 luglio 1991, n. 223, recante “Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro”) che consente il demansionamento dei lavoratori esuberanti nelle procedure di licenziamento collettivo, quando il licenziamento può essere evitato attraverso un accordo collettivo che permetta loro di essere adibiti a mansioni anche inferiori alle precedenti;
[3] Si vedano in particolare, l’art. 84 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 “Attuazione della delega di cui all’art. 1 della L. 22 luglio 1975, n. 382” che trasferisce alle Regioni le funzioni amministrative statali relative alle materie tranvie e linee automobilistiche di interesse regionale, comprese quelle relative al personale dipendente da imprese concessionarie di autolinee ed il decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422, “Conferimento alle regioni ed agli enti locali di funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale, a norma dell’art. 4 comma 4, della L. 15.3.97, n. 59 e smi.
[4] Per esempio, la Regione Puglia ha provveduto con la L.R. n. 18 del 31/10/2002, “Testo unico sullo disciplina del trasporto pubblico locale”. Si veda a tal proposito in particolare il suo art. 23;
[5] La Regione Lazio ha attivato le procedure per la selezione dei Presidenti dei C.d.D. con Determinazione della direzione Infrastrutture e mobilità n. G13839 20/11/2020.
La Regione Sardegna con la Deliberazione n. 10/70 del 16.03.2023 ha stabilito le modalità ed i requisiti soggettivi per la nomina, con Decreto del Presidente della Regione, dei Consigli di Disciplina delle singole aziende.