Indice. 1. Premessa. 2. Irrilevanza dei fatti estranei al rapporto di lavoro ed avvenuti fuori dai locali aziendali. Eccezioni. 3. Limiti al potere sanzionatorio del datore di lavoro. 3.1. Affissione del regolamento disciplinare. 3.2. Proporzionalità della sanzione alla gravità del fatto. 3.3. Forma scritta ed immediatezza della contestazione disciplinare. 3.4. Specificità della contestazione disciplinare. 3.5. I casi di ritorsione a seguito di segnalazione di fatti illeciti, c.d. whistleblowing. 4. Procedura ex art. 7, legge n. 300/1970. 5. Impugnativa del provvedimento disciplinare
- Premessa
In base alle norme contenute all’art. 2106 c.c., il datore di lavoro può sanzionare i propri dipendenti a causa d’inadempimenti contrattuali o di violazioni delle norme di legge in materia di regolazione del rapporto di lavoro ovvero per violazione di altre norme incidenti sul rapporto di lavoro o sul rapporto fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro, comprese le norme contenenti sanzioni penali per fatti inerenti il rapporto di lavoro, ovvero, che pur se relative a fatti estranei all’attività lavorativa, possono avere incidenza negativa nel prosieguo dell’attività lavorativa (per esempio, reati che, per la loro natura o gravità, siano tali da compromettere il rapporto di fiducia con il datore di lavoro oppure che determinino un danno, seppur soltanto all’immagine, dell’impresa).
Il codice civile, all’art. 2104 (rubricato “diligenza del lavoratore”) ed all’art. 2105 (rubricato “obbligo di fedeltà”) prevede due fondamentali categorie di doveri di ciascun lavoratore dipendente. Peraltro, tutti i Ccnl prevedono ulteriori specifici doveri dei lavoratori (per esempio, comunicare al datore di lavoro le assenze per malattia tempestivamente, comunicare eventuali variazioni della residenza, ecc.). Parte rilevante degli obblighi previsti contrattualmente a carico del lavoratore costituiscono, talvolta indirettamente, concreta applicazione dell’obbligo di diligenza di cui all’art. 2106 c.c. integrandosi la suddetta norma con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede nel concreto svolgersi della prestazione lavorativa. Le sanzioni possono essere comminate da parte del datore di lavoro (nelle imprese di maggiori dimensioni questa funzione è solitamente esercitata dal direttore del personale) per l’inosservanza degli obblighi di diligenza e/o di fedeltà da parte del lavoratore, ovvero per altre violazioni di norme contrattuali (Contratto collettivo applicato in azienda e/o contratto individuale di lavoro).
2. Irrilevanza dei fatti estranei al rapporto di lavoro ed avvenuti oltre l’orario di lavoro ed avvenuti fuori dai locali aziendali. Eccezioni
Fatti estranei al rapporto di lavoro, avvenuti fuori dall’orario di lavoro e fuori dai locali aziendali generalmente sono irrilevanti e non sanzionabili in virtù delle norme costituzionali che assicurano la libertà delle persone ed anche in applicazione del divieto di indagine su fatti estranei al rapporto di lavoro, di cui all’art. 8 dello Statuto dei diritti dei lavoratori (legge n. 300/1970). Tuttavia, eccezionalmente, in particolari casi, è possibile che specifici fatti estranei al rapporto di lavoro in essere, specie se essi hanno valenza con riferimento alla mansione del lavoratore, possano indurre il datore di lavoro alla risoluzione del rapporto di lavoro, a conclusione del procedimento disciplinare previsto dalla legge, per tutelare l’impresa dal rischio del ripetersi di fatti analoghi o per prevenire altri possibili danni, compreso quello all’immagine aziendale. E’ stato, per esempio, il caso affrontato dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 2168 del 30 gennaio 2013. Con questa sentenza la Suprema Corte chiarisce che: “I comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei perciò all’esecuzione della prestazione lavorativa, se, in genere, sono irrilevanti, possono tuttavia costituire giusta causa di licenziamento allorché siano di natura tale da compromettere la fiducia del datore di lavoro nel corretto espletamento del rapporto, in relazione alle modalità concrete del fatto e ad ogni altra circostanza rilevante in relazione alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso. (nella specie il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla s.c., aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente postale che aveva patteggiato una pena per il reato di violenza sessuale, attribuendo rilevanza al «forte disvalore sociale» dei fatti e all’eco avutane nella stampa, nonché alla posizione del dipendente, quale coordinatore di circa trenta unità addette al recapito, in ragione della responsabilità e preminenza rispetto ai componenti della squadra, attribuendo rilievo al fatto che le condotte poste in essere fossero connotate da un «abuso delle funzioni di guida e responsabilità connesse alla veste di capo della comunità religiosa»).”
Nel particolare caso scrutinato dalla Corte di Cassazione, con la decisione n. 20319 del 9.10.2015, riguardante il licenziamento di lavoratore dipendente di un’azienda che applicava il Ccnl del settore gas-acqua, vigente in quel tempo, che nel suo “…art. 21, comma 1, n. 7”, prevedeva il licenziamento per giusta causa con riguardo ai lavoratori “che commettano infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel lavoro, così gravi d a non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria d e l rapporto d i lavoro, o che commettono azioni costituenti delitto…tra cui, ad esempio, i delitti da cui sia conseguita una condanna a pena detentiva con sentenza passata in giudicato, per azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, che leda la figura morale del lavoratore”, ha affermato il seguente principio di diritto: “Affinché l’affidamento riposto dal datore di lavoro nelle qualità morali e nelle capacità professionali del lavoratore possa venire meno e possa così giustificare il licenziamento, non è necessario che il comportamento lesivo sia stato tenuto durante lo svolgimento del rapporto ma può essere sufficiente un fatto che, non ancora conosciuto quando il rapporto iniziò, sia divenuto palese successivamente, durante lo svolgimento del rapporto e può anche trattarsi di un illecito commesso durante un precedente rapporto di lavoro, intercorso con altro datore e nello svolgimento di mansioni diverse da quelle attuali. In tal caso, perché il nuovo datore di lavoro possa licenziare, non è sufficiente che il comportamento sia connesso alle mansioni assegnate dal datore precedente, ma diverse da quelle attuali, in quanto si tratterebbe di un comportamento non idoneo a ledere l’affidamento nella capacità professionale attualmente richiesta. Ma diverso è il caso in cui il comportamento commesso presso il precedente datore sia un fatto illecito, di natura penale, incida sulla figura morale del lavoratore e sia previsto dal contratto collettivo, del nuovo datore, quale causa di licenziamento.”
Il Tribunale di Pistoia, con la sentenza n. 1 del 12.01.2021 confermando la legittimità del licenziamento del ricorrente, effettuato dalla banca datrice di lavoro, ha affermato il seguente principio di diritto: “Al fine di invalidare la legittimità del licenziamento, non può avere rilevanza la circostanza che gli addebiti contestati siano avvenuti quando il ricorrente lavorava presso un altro istituto bancario. Ciò in quanto il vincolo fiduciario può essere leso anche da una condotta estranea al rapporto lavorativo in atto ed attinente ad un rapporto precedente, purché si tratti di comportamenti appresi dal datore di lavoro dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate e dal ruolo rivestito dal dipendente nell’organizzazione aziendale.” Si trattava di un caso di concorso in usura, giudizialmente accertato, avvenuto molti anni prima ma di cui la banca che ha effettuato il licenziamento aveva avuto la documentazione dopo l’inizio del rapporto di lavoro. Più precisamente, la banca ha avuto la documentazione del processo, svoltosi negli anni 2014 – 2015, dal ricorrente in data 4.7.2017 e la contestazione disciplinare è avvenuta in data 25.07.2017, cioè tempestivamente rispetto al momento di acquisizione della notizia.
3. Limiti al potere sanzionatorio del datore di lavoro
In ogni caso, al verificarsi di un fatto ritenuto sanzionabile dal datore di lavoro, quest’ultimo deve seguire la procedura di legge prima dell’eventuale irrogazione della sanzione disciplinare.
La legge n. 300/1970, nota come Statuto dei lavoratori, all’art. 7, prevede limiti e procedure per l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro. La norma prevede, infatti, che il lavoratore deve essere messo in grado di conoscere quali sono i comportamenti sanzionabili con l’affissione in luogo accessibile a tutti del regolamento disciplinare (salvo per i fatti già previsti come illeciti dalla legge e segnatamente da norme penali) contenente le specifiche conseguenze delle inosservanze (sanzioni disciplinari applicabili) e deve potersi discolpare, come indicato dalla legge stessa.
3.1. Affissione del regolamento disciplinare
La mancata pubblicità del regolamento disciplinare, mediante la sua affissione in luogo accessibile a tutti, può comportare l’illegittimità dell’irrogazione delle sanzioni quando si tratta di violazione di norme regolamentari interne o di fonte esclusivamente contrattuale ma, in base a costante giurisprudenza, “Il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto ..minimo etico…. mentre deve essere data adeguata pubblicità al codice disciplinare con riferimento a comportamenti che violano mere prassi operative, non integranti usi normativi o negoziali “ (Cass. n. 22626/2013, Cass. n. 21476/2019). La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8851/2018, con lo stesso orientamento interpretativo delle altre sopra indicate sentenze, ha specificato che “L’onere di pubblicità del cd. codice disciplinare, previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, si applica al licenziamento disciplinare soltanto nei limiti in cui questo sia stato intimato per una delle specifiche ipotesi di comportamento illecito vietate e sanzionate con il provvedimento espulsivo da norme della contrattazione collettiva o da quelle validamente poste dal datore di lavoro (entrambe soggette all’obbligo della pubblicità per l’esigenza di tutelare il lavoratore contro il rischio di incorrere nel licenziamento per fatti da lui non preventivamente conosciuti come mancanze) e non anche quando, senza avvalersi di una di queste specifiche ipotesi, il datore di lavoro contesti un comportamento che, secondo quanto accertato in fatto dal giudice del merito, integri una violazione di una norma penale, o sia manifestamente contrario all’etica comune, ovvero concreti un grave o comunque notevole inadempimento dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., poichè in tali casi il potere di licenziamento deriva direttamente dalla legge.”
Nei casi più gravi, come sopra specificato, il licenziamento disciplinare è lecito anche in difetto di affissione del regolamento, purché, però, sia osservata la procedura prevista dallo Statuto dei diritti dei lavoratori: la preventiva contestazione degli addebiti e l’audizione del lavoratore, se lo stesso la richiede, entro cinque giorni dalla contestazione, per presentare le proprie giustificazioni. Tuttavia, con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2025 (di riforma delle norme sui licenziamenti. E’ uno dei decreti costituenti il c.d. Jobs act) in caso di violazione della procedura, il licenziamento pur illegittimo non comporta più la reintegrazione nel luogo di lavoro ma il risarcimento del danno. Tranne che non vi sia “…il radicale difetto di contestazione dell’infrazione (che) determina l’inesistenza dell’intero procedimento e non solo l’inosservanza delle nonne che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al 4° co. dell’art. 18 legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, richiamata dal 6° co. del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito” (Cass. 25745/2016 e Cass. 4879/2020) .
Le sanzioni disciplinari sono stabilite dalla contrattazione collettiva nazionale, integrata da quella di secondo livello e dagli eventuali regolamenti aziendali. Le sanzioni generalmente previste da tali fonti normative, in coerenza con la legge, sono: il richiamo verbale; il richiamo o ammonizione scritta; la multa; la sospensione dal servizio e dalla retribuzione; il licenziamento con preavviso; il licenziamento senza preavviso (c.d. in tronco). La misura massima della multa e della sospensione disciplinare è prevista dalle specifiche norme regolamentari (Contratto collettivo e/o regolamento aziendale) ma non può essere superiore al limite indicato all’art. 7 della L. n. 300/1970: “…la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni”.
Le norme disciplinari relative alle sanzioni applicabili alle violazioni delle norme regolamentari interne ovvero alla violazione di norme specificamente contrattuali e le procedure di contestazione, fuori dai casi più gravi sopra indicati, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti, intendendo con ciò qualunque luogo della sede aziendale che sia accessibile senza permessi o autorizzazioni particolari, anche se il dipendente non debba necessariamente accedervi durante il lavoro o la fruizione dei servizi aziendali. Per imprese aventi più di una unità produttiva, l’affissione deve essere effettuata in ciascuna sede. Fuori dai casi più gravi già indicati (violazioni di norme penali ed altri obblighi di legge) la preventiva e continuativa affissione del codice disciplinare è condizione necessaria per la corretta attivazione di una procedura disciplinare.
Resta, in ogni caso fermo, che non può essere adottato legittimamente alcun provvedimento disciplinare senza la preventiva contestazione degli addebiti e senza aver ascoltato le difese del lavoratore, se quest’ultimo lo chiede nei termini di legge.
3.2. Proporzionalità della sanzione alla gravità del fatto
Come previsto all’art. 2106 c.c., la sanzione disciplinare deve essere determinata dal datore di lavoro in misura proporzionale alla gravità dell’infrazione (“…secondo la gravità dell’infrazione”).
E’ opportuno precisare che, come recentemente affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 25969/2023, ai fini della corretta valutazione di proporzionalità possono rientrare fattori relativi alle conseguenze indirette che possono derivare da una sanzione inadeguata a scoraggiare l’ulteriore verificarsi di fatti simili. “In tema di licenziamento disciplinare, ai fini della valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto all’ infrazione contestata, il giudice di merito deve esaminare la condotta del lavoratore, in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, anche alla luce del “disvalore ambientale” che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere, per gli altri dipendenti dell’impresa, a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi.”
E’ opportuno precisare che, in applicazione del d.lgs. n. 23/2015 (decreto facente parte del c.d. Jobs act) nel caso in cui il Giudice accerti l’illegittimità del licenziamento a causa della sproporzione tra il licenziamento stesso ed il fatto contestato, non può disporre la reintegrazione ma deve condannare l’azienda al risarcimento del danno (tra 12 e 24 mensilità) da quantificarsi in base ai parametri previsti dalla legge.
E’ previsto il risarcimento del danno (tra 6 e 12 mensilità) anche in caso di licenziamento illegittimo per carenza del requisito di motivazione e nei casi di violazione della procedura disciplinare prevista all’art. 7, L. n. 300/70.
Diversamente, ove risulti in giudizio “…l’ insussistenza del fatto contestato (con riferimento all’irrilevanza disciplinare di quanto contestato), avuto riguardo al fatto che il rapporto di lavoro è sorto in data antecedente al marzo del 2015 e che l’azienda datrice di lavoro occupa pacificamente più di quindici dipendenti, va fatta applicazione dell’art. 18 comma 4 della L. n. 300 del 1970, per come modificato dalla L. n. 92 del 2012, e la società … va condannata a reintegrare … nel posto di lavoro, oltre al pagamento di un’ indennità risarcitoria limitata a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto …” Sentenza del Tribunale di Cassino, n. 594/2023
Anche per i lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015, in applicazione del d.lgs. n. 23/2015 in caso di insussistenza del fatto contestato è prevista la reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno.
3.3. Forma scritta ed immediatezza della contestazione disciplinare
Per le sanzioni più rilevanti del rimprovero verbale, la contestazione al lavoratore deve essere fatta in forma scritta e nell’immediatezza del fatto, ovvero nell’immediatezza dell’acquisizione della notizia da parte del datore di lavoro. Per la valutazione dell’immediatezza, bisogna tenere conto del tempo necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti che, nei casi più complessi, può richiedere un tempo necessario allo svolgimento delle prime indagini interne, seppur non è indispensabile che queste siano complete ma, tuttavia, esse devono essere sufficienti a contestare specificamente il fatto. In caso di ritardo ingiustificato, il giudice può annullare la sanzione conservativa (ammonizione, multa, sospensione). Tuttavia, se la sanzione è stata quella del licenziamento, dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015, in caso di ingiustificato ritardo, l’illiceità della sanzione, come ha precisato la Corte di Cassazione, in ultimo con la sentenza n. 18070/2023 (un lavoratore contro la Banca Monte dei Paschi di Siena) non è sanzionabile con la reintegrazione nel posto di luogo ma con il risarcimento del danno. Infatti, nella citata sentenza si afferma che “In tema di licenziamento, l’immediatezza della contestazione è elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro ma è esterno alla condotta disciplinarmente rilevante posta in essere dal lavoratore che integra la fattispecie giuridica astrattamente punibile con la sanzione espulsiva. Ne consegue che, ove sussista l’inadempimento posto a base del licenziamento, ma la contestazione dell’addebito disciplinare sia stata dal datore di lavoro effettuata con notevole ed ingiustificato ritardo in violazione dei principi di correttezza e buona fede, trova applicazione la tutela indennitaria prevista dall’art. 18, comma 5, dello Statuto dei lavoratori (Nel caso di specie, la Suprema Corte, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata con la quale la corte di appello, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore ricorrente e risolto il rapporto di lavoro, aveva condannato, in applicazione dell’art. 18, comma 6, dello Statuto dei lavoratori, il datore di lavoro al pagamento di un’ indennità risarcitoria liquidata in dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita oltre interessi legali dalla risoluzione del rapporto al soddisfo).” (Cass. 18070/2023).
Il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione nel 2023 con la sentenza n. 18070 è conforme a quello già espresso dalle sezioni Unite della Corte con la sentenza n. 30985/2017. In essa, infatti, si legge che “Qualora sussista l’inadempimento posto a base del licenziamento, ma non essendo tale provvedimento preceduto da una tempestiva contestazione disciplinare a causa dell’accertata contrarietà del comportamento del datore di lavoro ai canoni di correttezza e buona fede, la conclusione non può essere che l’applicazione dell’art. 18, comma 5, dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970). Diversamente, qualora le norme di contratto collettivo o la stessa legge dovessero prevedere dei termini per la contestazione dell’addebito disciplinare, la relativa violazione verrebbe attratta, in quanto caratterizzata da contrarietà a norma di natura procedimentale, nell’alveo di applicazione del citato art. 18, comma 6, del predetto Statuto che, nella sua nuova formulazione, è collegato alla violazione delle procedure di cui all’art. 7, della legge n. 300 del 1970 e dell’art. 7 della legge n. 604 del 1966. In definitiva, la dichiarazione giudiziale di risoluzione del licenziamento disciplinare conseguente all’accertamento di un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell’addebito posto a base dello stesso provvedimento di recesso, ricadente “ratione temporis” nella disciplina dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, così come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92, comporta l’applicazione della sanzione dell’indennità come prevista dall’art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970.”
3.4. Specificità della contestazione disciplinare
La contestazione disciplinare deve essere specifica cioè deve contenere gli elementi essenziali per l’identificazione del fatto per il quale il datore di lavoro ritiene che vi sia stato il comportamento illegittimo di quel dato lavoratore. Il requisito della specificità della contestazione è indispensabile per consentire al lavoratore incolpato di potersi opportunamente difendere (per esempio, poter sostenere che il fatto è avvenuto diversamente; e/o per cause diverse e non imputabili allo stesso lavoratore; oppure che non lo ha commesso lui; ovvero che il fatto non è stato voluto[1] e non è di tipo colposo[2] ma, per esempio, si è verificato per caso fortuito o per forza maggiore, ecc.). Per questo motivo la contestazione formulata dal datore di lavoro deve essere sufficientemente precisa e dettagliata, cioè deve contenere, non minuziosi e superflui dettagli, ma gli elementi necessari ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti contestati.
La Corte d’Appello di Catanzaro con la sentenza del 27/06/2023, n. 845 ha affermato il seguente principio di diritto: “La specificità della contestazione degli addebiti disciplinari, prescritta dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, implica che questa deve contenere l’esposizione dei dati e degli aspetti essenziali del fatto materiale posto a fondamento dell’ illecito, ai fini della identificazione del comportamento nel quale il datore di lavoro ravvisa l’infrazione disciplinare sanzionabile.”
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 11344 del 2 maggio 2023 ha chiarito che “La contestazione dell’addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’ immediata difesa e deve a tal fine rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ. Il giudice di merito, al fine di valutare il grado di specificità della contestazione, deve tener conto del contesto in cui i fatti di rilievo disciplinare si collocano, della natura e del contenuto dei fatti medesimi ed accertare se la mancata precisazione di alcuni elementi fattuali (ad esempio di ordine temporale, spaziale o relativi alle esatte parole pronunciate) possa aver determinato un’ insuperabile incertezza nell’ individuazione dei comportamenti imputati, tale da pregiudicare in concreto il diritto di difesa.
L’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di
un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito.”
I casi di ritorsione a seguito di segnalazione di fatti illeciti, c.d. whistleblowing
Le norme a tutela dei soggetti che effettuano una segnalazione di uno o più fatti illeciti, sono oggi contenute nel decreto legislativo n. 24/2023 che ha sostituito la L. n. 179/2017.
Il d.lgs. n. 24/2023, dal 15 luglio 2023, si applica a tutta la P.A. ed alle imprese private con almeno 250 dipendenti e, dal 17/12/2023, si applicherà alle altre imprese private con almeno 50 dipendenti ed a tutte le imprese private che applicano il Modello Organizzativo Gestionale (M.O.G.) di cui al d.lgs. n. 231/2001, indipendentemente dal loro numero di addetti.
In caso di segnalazione di fatti illeciti, come previsto dal d.lgs. n. 24/2023, sia il segnalante sia le altre persone a lui collegate e tutelate dalla legge (eventuali facilitatori, colleghi con cui il segnalante ha uno stabile rapporto umano, parenti fino al 4° grado) sono tutelate in caso di ritorsioni, dirette e/o indirette. Tra i numerosi fatti ritenuti presuntivamente ritorsivi, all’art. 17, comma 4, lettera f), è inserita anche “l’adozione di misure disciplinari o di altra sanzione, anche pecuniaria”.
In caso di fatti che potrebbero essere ritenuti di tipo ritorsivo, il lavoratore beneficia della c.d. inversione dell’onere della prova, cioè nel ricorso al giudice del lavoro per l’annullamento del provvedimento è sufficiente indicare di avere fatto una segnalazione di cui al d.lgs. n. 24/2023 oppure di essere uno dei soggetti tutelati dallo stesso decreto legislativo (facilitatore, collega o parente del segnalante). Sarà onere del datore di lavoro dimostrare che il fatto dannoso indicato nel ricorso non è conseguenza della segnalazione. In assenza di prova contraria fornita dal datore di lavoro e ritenuta congrua dal Giudice adito, quest’ultimo non potrà che annullare il provvedimento.
Per maggiore approfondimento delle tutele offerte dal d.lgs. n. 24/2023 si veda l’ultimo articolo pubblicato dal sottoscritto sull’argomento al seguente indirizzo:
4. Procedura ex art. 7, legge n. 300/1970
La procedura è prevista all’art. 7, L. n. 300/1970. L’eventuale regolamento disciplinare aziendale non può derogare ai vincoli che il legislatore ha posto in capo al datore di lavoro. Solo il Contratto Collettivo (nazionale e/o aziendale) può contenere norme attuative dei principi posti all’art. 7 della legge n. 300/70 e può contenere ulteriori procedure (in aggiunta a quelle già previste dalla legge) per la contestazione del provvedimento disciplinare, da parte del lavoratore sanzionato.
Nel caso in cui il datore di lavoro ritenga che la violazione del lavoratore sia di gravità tale da richiedere una sanzione eccedente il rimprovero verbale, è necessario che i fatti siano contestati in forma scritta (può essere consegnata in azienda chiedendo al lavoratore di sottoscrivere la ricevuta di consegna oppure inviata con lettera raccomandata). Tale modalità assicura l’immutabilità della contestazione, per cui il lavoratore non deve dimostrare null’altro che ciò che serve a discolparsi dall’addebito in essa contenuto. E’ questo un vincolo di garanzia dell’effettivo esercizio di difesa del lavoratore, in quanto impedirà al datore di lavoro di far valere successivamente fatti e circostanze diverse da quelle inizialmente indicate nella contestazione disciplinare.
Considerato che, come previsto all’art. 7, L. n. 300/70, “…i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale, non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa”, il lavoratore, ricevuta la contestazione disciplinare, entro il termine di cinque giorni (salvo che siano previsti termini più ampi ad opera della Contrattazione Collettiva applicata nell’unità produttiva) può chiedere di essere sentito per presentare le proprie giustificazioni. In questo caso, ha anche diritto di essere assistito da un proprio rappresentante sindacale ed il datore di lavoro non può rifiutarsi di convocarlo. Analogamente, il datore di lavoro può essere assistito da professionisti anche esterni all’impresa (per esempio, consulente del lavoro o avvocato).
In assenza, però, della specifica richiesta del lavoratore, il datore di lavoro non ha nessun obbligo di sollecitare il lavoratore a presentare le proprie giustificazioni.
Le giustificazioni possono essere presentate oralmente, nell’apposito incontro, oppure, a scelta del lavoratore, possono essere presentate in forma scritta.
In caso di giustificazioni scritte, è particolarmente importante specificare in modo chiaro la propria tesi perché il documento potrà tornare utile, o potrà essere utilizzato dal datore di lavoro, successivamente, in caso di impugnativa del provvedimento disciplinare adottato a conclusione della procedura disciplinare.
In caso di giustificazioni fornite in forma orale, con o senza l’assistenza del rappresentate del sindacato, il datore di lavoro non ha alcun obbligo di verbalizzare quanto esposto dal lavoratore o quanto emerso nell’eventuale discussione, tuttavia, di propria iniziativa oppure se specificamente richiesto dal lavoratore, potrebbe provvedere alla verbalizzazione. In quest’ultimo caso il lavoratore deve chiederne una copia sottoscritta in originale perché lo stesso verbale potrebbe essere utilizzato in giudizio o presso la Commissione di conciliazione, in caso di impugnativa del provvedimento disciplinare.
Al termine di questa prima fase, se il lavoratore non presenta le proprie giustificazioni o il datore di lavoro non ritiene valide le giustificazioni fornite dal lavoratore, lo stesso datore di lavoro potrà applicare la sanzione prevista dalla legge, dal Contratto Collettivo o dal regolamento aziendale.
In ogni caso, non può tenersi conto delle sanzioni disciplinari comminate allo stesso lavoratore dopo 2 anni dalla loro applicazione.
5. Impugnativa del provvedimento disciplinare
Il lavoratore che, a conclusione della procedura disciplinare, riceve la comunicazione contenente il provvedimento adottato dal datore di lavoro, se lo ritiene ingiusto ovvero se lo ritiene sproporzionato rispetto alla gravità del fatto, può contestarlo utilizzando una delle procedure previste dalla legge o dalla Contrattazione collettiva:
- eventuale ricorso ad una specifica procedura di contestazione se prevista dal Ccnl o dal Contratto Collettivo aziendale applicato;
- ricorso al giudice del lavoro;
- richiesta, entro 20 giorni dal provvedimento, anche per mezzo della propria organizzazione sindacale, di costituzione di una Commissione di conciliazione ed arbitrato all’ex Direzione provinciale del lavoro, ora sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
Il ricorso al Giudice del Lavoro deve essere presentato da un avvocato munito di procura speciale sottoscritta dal lavoratore.
In caso di impugnativa del provvedimento disciplinare con richiesta di costituzione del collegio di conciliazione ed arbitrato, come previsto all’art. 7, L. n. 300770, “…La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio.
Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall’invito rivoltogli dall’ufficio del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al comma precedente, la sanzione disciplinare non ha effetto. Se il datore di lavoro adisce l’autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio.”
Il lavoratore può nominare il proprio arbitro anche contestualmente alla richiesta di costituzione del collegio. L’arbitro nominato dal lavoratore dovrà concordare con l’arbitro nominato dal datore di lavoro il nominativo del terzo arbitro. In assenza di accordo, “…il terzo arbitro sarà nominato dal direttore dell’ufficio del lavoro” (ora INL).
09/10/2023
Avv. Giorgio Tessitore
Esperto in relazioni industriali, diritto del lavoro, sindacale e previdenziale
Note.
[1] la coscienza e volontarietà del fatto indicano che esso è doloso. Il fatto doloso non è giustificabile salvo casi eccezionali dovuti, per esempio, alla necessità di salvare se stesso o altri dal pericolo di un danno grave alla persona,
[2] il fatto è colposo se si verifica in conseguenza di uno dei seguenti fattori, negligenza, imprudenza, imperizia ovvero per violazione di ordini o discipline.