La Corte di Cassazione con la sentenza n. 9095 del 31/03/2023, intervenendo in un caso di licenziamento per superamento del periodo di malattia previsto dal CCNL per la conservazione del posto di lavoro (periodo di comporto), chiarisce la portata del quadro normativo nazionale e sovranazionale in materia di tutele antidiscriminatorie. Occorre adesso trovare il punto di equilibrio normativo tra tutela della salute dei lavoratori disabili, il contrasto all’abuso del diritto alla conservazione del posto di lavoro per malattia ed il diritto del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa. Una possibile nuova sfida per le parti sociali.
Per effetto della recente interpretazione giurisprudenziale delle norme di legge in materia di divieto di “…discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età, della nazionalità o dell’orientamento sessuale”[1] continua a farsi strada, nella moderna cultura giuridica, ed auspicabilmente nella società, un’idea di uguaglianza tra persone con caratteristiche tra loro diverse che non considera la diversità un limite ma semmai ricchezza sociale. La sentenza n. 9095/2023 della Corte di Cassazione afferma, infatti, un principio di diritto utile a tutelare e difendere anche coloro che hanno subito discriminazioni da soggetti che assunto comportamenti, talvolta non dolosi o colposi, che oggettivamente contrastano con il diritto positivo. In effetti dare un trattamento uguale a soggetti aventi caratteristiche diverse è un modo sbagliato di intendere il principio di uguaglianza.
In materia di contrasto alle varie forme di discriminazione sono vigenti norme di tutela previste sia dall’ordinamento europeo (direttiva 2000/78/CE) sia da fonti normative interne, di recepimento della normativa comunitaria (Decreto legislativo n. 216 del 09/07/2003) e, specificamente per le disabilità, concorre a completare il quadro normativo la Convenzione ONU adottata dall’Assemblea Generale il 13 dicembre 2006 ed entrata in vigore il 3 maggio 2008.
Proprio in materia di non discriminazione dei lavoratori disabili, la Corte di Cassazione, nei giorni scorsi, con la sentenza n. 9095 del 31/03/2023, ha affermato il seguente principio di diritto:
“In materia di licenziamento per superamento del periodo di comporto di un lavoratore disabile, la discriminazione opera in modo oggettivo ed è irrilevante l’ intento soggettivo dell’autore. Non è dunque decisivo l’assunto del datore di non essere stato messo a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, perché i certificati medici delle assenze inoltrati allo stesso non indicavano la specifica malattia quale causa dell’assenza. Ciò perché la discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro.”
Alla suddetta sentenza della Suprema Corte di Cassazione si è giunti a seguito di un procedimento giudiziario originato dal licenziamento per malattia, con superamento del periodo di comporto, di un “…dipendente con mansioni di spazzino stradale o spazzino porta-sacchi …” di una S.p.A. milanese impegnata nei servizi ambientali per il quale, in primo grado, “…il Tribunale aveva ravvisato una discriminazione diretta correlata alle condizioni di disabile del lavoratore, riconosciuto portatore di handicap ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 1, con capacità lavorativa ridotta del 75%, inidoneo a diverse mansioni sulla base degli accertamenti sanitari.
Il licenziamento era stato intimato in applicazione delle norme in materia di malattia e comporto previste dal CCNL per i servizi ambientali applicato nell’impresa. Le suddette norme nel prevedere la durata massima dei periodi di malattia con diritto alla conservazione del posto di lavoro non distinguono tra la comune malattia e le assenze dovute a malattie dipendenti da “…patologia collegata alla disabilità…”. Nella stessa sentenza si dà atto che il datore di lavoro non conosceva le patologie che avevano causato le assenze né poteva conoscerle in quanto la certificazione medica trasmessa all’azienda contiene la prognosi ma non contiene e non deve contenere la diagnosi ed inoltre, il datore di lavoro, come previsto dallo stesso CCNL, “…aveva altresì informato il sig. A.A. che egli, nel periodo 12/01/2013 – 11/01/2016, aveva accumulato assenze per malattia per un ammontare pari a 335 giorni calendariali, invitandolo altresì a «far pervenire… osservazioni scritte… entro 7 giorni dal ricevimento della presente» e che, ciononostante, alcuna osservazione scritta a riguardo fece mai pervenire il controricorrente…”.
Tuttavia, la Corte di Cassazione richiamando un suo precedente pronunciamento in materia di discriminazione indiretta, ha precisato che “La discriminazione opera in modo oggettivo ed è irrilevante l’ intento soggettivo dell’autore. Non è dunque decisivo (a parte i profili di prova della conoscenza della situazione di disabilità del lavoratore di cui ai paragrafi che precedono) l’assunto di parte ricorrente di non essere stata messa a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, perché i certificati medici delle assenze inoltrati al datore di lavoro non indicavano la specifica malattia a causa dell’assenza. Va, invero, confermato che la discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (Cass. n. 6575/2016).”
Nel corpo della sentenza n. 9095/2023, la Corte di Cassazione mette in evidenza l’inadeguatezza delle norme contrattuali che, ai fini del calcolo del periodo di comporto, e del suo limite di durata, non prevedono una differenziazione di trattamento tra lavoratori disabili e non aventi specifiche disabilità. Ciò in quanto i lavoratori disabili, in confronto agli altri lavoratori, sono maggiormente esposti al rischio di assenze per malattia. Per la Corte di Cassazione, come specificato ai punti nn. 22 e 23 della sentenza n. 9095/2023, “Quel che rileva è l’approdo interpretativo, necessitato dalla normativa Europea trasposta in quella domestica, secondo il quale il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e perciò vietata.
Questo non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato. Una simile scelta discrezionale del legislatore o delle parti sociali per quanto di competenza, anche ai fini di combattere fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità, può integrare, come ricordato nelle sentenze della CGUE citate, una finalità legittima di politica occupazionale, ed in tale senso oggettivamente giustificare determinati criteri o prassi in materia. Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio.
Sul concetto di disabilità, nella sentenza in commento, viene precisato che il sistema normativo vigente è fondato sulla “…Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con L. n. 18/2009 (“Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità”). Detta Convenzione (CDPD) è stata altresì approvata dall’UE, nell’ambito delle proprie competenze, con “Decisione del Consiglio del 26 novembre 2009 relativa alla conclusione, da parte della Comunità Europea, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità” (2010/48/CE), con la conseguenza che per la Corte di giustizia UE le stesse direttive normative antidiscriminatorie vanno interpretate alla luce della Convenzione.
Pur non essendo stata la disabilità esattamente definita dalle norme vigenti, la Corte di Cassazione segnala che “la CGUE ha chiarito che la nozione di “handicap” di cui alla direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata, e che la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione.
(…)
Peraltro, la Convenzione dell’ONU, ratificata dall’Unione Europea con decisione del 26 novembre 2009, alla sua lettera e) riconosce che “la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’ interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”.
In tal modo, l’art. 1, comma 2, di tale Convenzione dispone che sono persone con disabilità “coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di uguaglianza con gli altri”. Inoltre, dall’art. 1, comma 2, della Convenzione dell’ONU risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere “durature”. Ne risulta che la direttiva 2000/78 miri a coprire unicamente gli handicap congeniti o derivanti da incidenti, escludendo quelli cagionati da una malattia; sarebbe, infatti, in contrasto con la finalità stessa della direttiva in parola, che è quella di realizzare la parità di trattamento, ammettere che essa possa applicarsi in funzione della causa dell’handicap (p.p. 36 -41).
In altro punto della stessa sentenza n. 9095/2023, la Corte di Cassazione segnala che “la CGUE ha sottolineato che la direttiva 2000/78 deve essere oggetto, per quanto possibile, di un’ interpretazione conforme alla CDPD…”
Nel recente passato, casi simili erano stati affrontati da alcuni Giudici del merito con alterne pronunce. Per esempio:
- si sono espressi in modo conforme all’attuale orientamento della Corte di Cassazione, la Corte d’Appello Milano, sentenza n. 1128/2022, sul caso di un lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto ai sensi dell’art. 51 del CCNL Multiservizi; il Tribunale di Ivrea, con l’Ordinanza del 20/1/2021;
- in modo difforme, Corte d’Appello di Torino, Sent. n. 604/2021 (riforma dell’ordinanza del Tribunale di Ivrea del 20/01/2021) che pur prendendo in esame gli orientamenti della CGUE, opera un bilanciamento degli interessi del lavoratore disabile con l’interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa e ritiene legittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto; Tribunale di Vicenza, Sent. n. 181 del 27/04/2022, anche questa pronuncia contiene un esame della giurisprudenza della CGUE ed opera un bilanciamento degli interessi delle parti in virtù del quale ritiene legittimo il licenziamento per superamento delperiodo di comporto.
In sostanza, con la sentenza n. 9590/2023 della Corte di Cassazione, viene offferto ai Tribunali del merito un chiaro orientamento interpretativo delle norme vigenti e, precisando il significato e la portata delle norme antidiscriminazione e quelle sulla tutela delle persone con handicap, la Suprema Corte suggerisce alle Istituzioni nazionali ed alle parti sociali, l’opportunità di prevedere una più articolata normativa in materia di comporto per malattia che, superando l’attuale carenza, tenga conto, in modo proporzionato, del maggior rischio di morbilità cui sono esposti i lavoratori disabili.
E’ questa un’esigenza, soprattutto delle imprese che, oggi, alla luce delle recenti interpretazioni dei giudici di legittimità, non hanno un sistema normativo certo ed esattamente definito per l’individuazione del momento in cui il licenziamento per eccessiva morbilità, con superamento del comporto della persona con disabilità, è legittimo e non espone all’elevato rischio di impugnativa con conseguente sentenza di reintegrazione e risarcimento del danno corrispondente alle mensilità di retribuzione non corrisposte dopo il licenziamento e fino alla reintegrazione.
Ed ove le parti sociali decidessero di intervenire prima di un possibile intervento legislativo, a ben guardare, potrebbero utilizzare l’occasione offerta dai rinnovi contrattuali nazionali in scadenza (percorso dai tempi non brevi e dal rischio di eccessive ed ingiustificate disparità di trattamento tra settori diversi pur a fronte della stessa problematica) ovvero, ancor meglio, mediante accordi interconfederali tra le principali associazioni dei datori di lavoro e le Confederazioni Sindacali maggiormente rappresentative. Soluzione, quest’ultima, che avrebbero il duplice pregio della maggiore rapidità di attuazione ed operatività per la stragrande maggioranza dei lavoratori e delle imprese, sia quello della maggiore uniformità dei trattamenti.
14/04/2023
Avv. Giorgio Tessitore
Esperto in diritto del lavoro e previdenziale
Convenzionato con il patronato Inas Cisl
[1] testo inserito al comma 1 dell’art. 2 del d.lgs. n. 216/2003