La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022, ha risolto il contrasto giurisprudenziale determinatosi nella giurisprudenza di merito sulla decorrenza della prescrizione dei crediti da lavoro. Ora la decorrenza si calcola dalla conclusione del rapporto di lavoro, anche per quei rapporti in cui trova applicazione l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, come novellato dalla c.d. riforma Fornero e dal Jobs act in quanto è venuta meno la c.d. tutela reale.
- L’assetto normativo e l’interpretazione della Corte Costituzionale fino alla c.d. riforma Fornero ed al c.d. Jobs act
La prescrizione dei diritti economici rientranti nella vasta nozione di retribuzione[1] e la sua decorrenza, sono regolati ai nn. 4) e 5) dell’art. 2948 c.c., al n. 2) dell’art. 2955 c.c.[2] ed al n. 1) dell’art. 2956 c.c.[3], come interpretati dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 63/1966, 143/1969, di cui si dirà più avanti.
I ricorsi alla Corte Costituzionale sono stati causati dalla limitata e non dettagliata regolamentazione della prescrizione in materia di crediti nascenti dal rapporto di lavoro e, soprattutto, dalla mancata individuazione esplicita della decorrenza dei termini di prescrizione in un rapporto, quale quello di lavoro dipendente, caratterizzato da uno squilibrio di potere tra le parti. Infatti, se ordinariamente il tempo per la prescrizione di un diritto decorre dal momento della maturazione del diritto stesso, cioè da quando questo diritto può essere fatto valere; nel caso dei crediti da lavoro, in considerazione del timore di ritorsioni e segnatamente del licenziamento del lavoratore che ne avanzasse la richiesta formale nei rapporti di lavoro, il momento iniziale decorrenza della prescrizione in base alle interpretazioni della Corte Costituzionale, sin dalla sentenza n. 63 del 1966, deve essere individuato nel momento della fine del rapporto di lavoro.
Dalla legge n. 300/1970, tutto ciò è rimasto pienamente e validamente riconosciuto solo per i rapporti privi del rimedio della reintegrazione (c.d. tutela reale) nel caso di licenziamento illegittimo.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 63/1966, dopo aver precisato che “…la situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, cioè per timore del licenziamento;” ha, infatti, esplicitamente dichiarato: “Sono incostituzionali gli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c., limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro.”
La stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 143/1969 ha più esplicitamente delimitato l’ambito di applicazione del precedente pronunciamento ai rapporti non caratterizzati dalla stabilità reale escludendo esplicitamente tutti i rapporti di pubblico impiego. Infatti, in essa si legge che: “L’art. 2, primo comma, del R.D.L. 19 gennaio 1939 n. 295, sulla prescrizione biennale degli stipendi ed assegni degli impiegati dello Stato, non contrasta con l’art. 36 della Costituzione. Anche nei rapporti di pubblico impiego statale di carattere temporaneo l’impiegato è assistito dalle garanzie dei rimedi giurisdizionali contro l’arbitraria risoluzione anticipata del rapporto: rimedi che si estendono al sindacato sull’eccesso di potere. Secondo l’ordinamento del pubblico impiego, le assunzioni temporanee (che, in linea di principio, sono escluse) hanno carattere precario, e la rinnovazione del relativo rapporto non presenta carattere di normalità. La non rinnovazione costituisce un evento inerente alla natura del rapporto stesso e la previsione di essa non pone il lavoratore in una situazione di timore di un evento incerto, al quale egli sia esposto durante il rapporto, qual è il licenziamento nel rapporto di lavoro di diritto privato.”
Sempre la Corte Costituzionale con la sentenza n. 86/1971 ha precisato che il termine per la prescrizione dei diritti continua ad avere inizio durante il rapporto di lavoro “…a) quando trattasi di diritti soggetti a prescrizione breve o presuntiva; b) quando trattasi di risarcimento di danni ex art. 2116 del codice civile per irregolare versamento da parte del datore di lavoro di contributi di assicurazione contro la invalidità e la vecchiaia, non versandosi, in tal caso, nell’ipotesi di prestazioni salariali che godono della speciale garanzia derivante dall’art. 36 Cost.; c) quando, infine, trattasi di crediti vantati dai dipendenti di enti pubblici (vedi sent. n. 63 del 1966) non sussistendo per questi dipendenti quel timore di licenziamento che possa indurre il lavoratore alla rinuncia dei propri diritti.”
Ed ancora, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 174/1972, ha ulteriormente chiarito che: “…il principio affermato con la sentenza n. 63 del 1966 non dovesse trovare applicazione tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato sia caratterizzato da una particolare forza di resistenza, quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione. Non sembra dubbio che tale interpretazione, fatta allora valere per i rapporti di pubblico impiego statali, anche se di carattere temporaneo, debba trovare applicazione in tutti i casi di sussistenza di garanzie che si possano ritenere equivalenti a quelle disposte per i rapporti medesimi. Siffatta analogia si verifica allorché ricorra l’applicabilità della legge 15 luglio 1966 n. 604 e legge 20 maggio 1970 n. 300, di cui la seconda deve considerarsi necessaria integrazione della prima, dato che una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare.”
I sopra indicati pronunciamenti della Corte Costituzionale sono stati ulteriormente confermati dalla stessa Corte con la sentenza n. 51/1979.
Conformemente e coerentemente con i superiori interventi della Corte Costituzionale, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 1268 del 12.4.1976, hanno ulteriormente chiarito che la decorrenza della prescrizione (che è quinquennale, per i crediti retributivi di tutti i lavoratori) «non è unica per qualsiasi rapporto di lavoro ma dipende…dal grado di stabilità del rapporto stesso», dovendosi «ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale sul piano sostanziale subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo». Precisando, inoltre, che agli effetti dello spostamento del decorso della prescrizione a fine rapporto, tale situazione di stabilità, «per la generalità dei casi, coincide oggi con l’ambito di operatività della legge 20.5.1970 n. 300 (dati gli effetti attribuiti dall’art. 18 all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604 sui licenziamenti individuali)», potendo tuttavia «anche realizzarsi ogniqualvolta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che danno al prestatore d’opera una tutela di pari intensità».
Per molti anni, quindi, nelle imprese soggette all’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori (L. n. 300/1970) alla luce dei pronunciamenti della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, si è pacificamente ritenuta lecita la decorrenza quinquennale della prescrizione dei crediti maturati durante il rapporto di lavoro sin dal giorno di maturazione del diritto stesso mentre nelle imprese non soggette alla reintegrazione nei casi di licenziamento illegittimo, il termine iniziale per la decorrenza della prescrizione dei diritti retributivi, ex art. 36 Cost., si è considerato coincidente con la fine del rapporto di lavoro (sia in caso di licenziamento sia in caso di dimissioni).
Per quanto appena detto, tutto ciò che viene corrisposto dal datore al prestatore di lavoro con periodicità annuale o infra annuale – e soprattutto, i crediti di retribuzione – si prescrive nel termine di cinque anni, secondo il disposto dell’art. 2948, n. 4, c.c. L’unica differenza, non di poco conto, sta nel fatto che nei rapporti non caratterizzati dalla stabilità reale, la decorrenza della prescrizione inizia dal momento della cessazione del rapporto di lavoro e non dal momento della maturazione del diritto stesso. Allo stesso termine quinquennale di prescrizione sono sempre soggette, ex art. 2948, n. 5, c.c., le competenze spettanti alla cessazione del rapporto di lavoro (il trattamento di fine rapporto, l’indennità di mancato preavviso e l’indennità per causa di morte). Invece, la prescrizione ordinaria decennale, ex art. 2946 c.c., per i diritti economici derivanti dai rapporti di lavoro, ha una più limitata rilevanza applicativa, in quanto potrà riguardare il risarcimento di danni alla salute, alla professionalità, ecc.
Il calcolo della prescrizione dei diritti diversi dalla retribuzione ma aventi effetti su di essa potrebbe seguire, di volta in volta, logiche diverse. A tal fine, per esempio, si segnala il principio recentemente affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. Lavoro del 07/10/2022, n. 29234: “Il diritto del lavoratore all’inquadramento professionale, costituendo un diritto di credito derivante dalle mansioni concretamente svolte e in relazione al quale vi è, per il datore di lavoro, il corrispondente obbligo di assegnazione, soggiace alla prescrizione ordinaria decennale di cui all’art. 2946 c.c. Il decorso del decennio dal momento dell’insorgenza del diritto non preclude definitivamente l’accesso al superiore inquadramento allorché continui l’attività potenzialmente idonea a determinarlo, in quanto, permanendo la situazione cui la norma collega il diritto, la prescrizione decorre autonomamente da ogni giorno successivo a quello nel quale si è per la prima volta concretata tale situazione, fino alla cessazione della medesima.”
- Il nuovo assetto normativo in materia di licenziamenti illegittimi
In tempi più recenti si sono verificati cambiamenti normativi sostanziali per scelta del legislatore ed incidenti sulla stabilità del rapporto di lavoro. Il l progressivo depotenziamento dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, è iniziato con la cd. “riforma Fornero” del 2012 ed è proseguito con il decreto attuativo della legge n. 183/2014, il d.lgs. n. 23 del 2015, parte del cd. Jobs act.
Dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della L. n. 92/2012 (c.d. riforma Fornero) in alcuni casi di licenziamento illegittimo[4], nelle imprese sopra soglia[5], si è introdotto nell’ordinamento il rimedio del risarcimento del danno in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro. Da questo momento, anche nelle c.d. imprese sopra soglia, non vi è più la certezza della reintegrazione nel rapporto di lavoro in tutti i casi di licenziamento illegittimo. Le nuove norme si applicano a tutti i rapporti già in essere ed a quelli instaurati fino al 6 marzo 2015.
Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015, dal 7 marzo 2015, per i nuovi assunti, in quasi tutti i casi di licenziamento illegittimo[6], si applica il rimedio del risarcimento del danno, con varia intensità della misura economica. Il risarcimento del danno è così divenuto il rimedio ordinariamente previsto dall’ordinamento per tutti i casi di licenziamento illegittimo mentre residualmente, solo per alcuni casi ritenuti particolarmente meritevoli di maggiore tutela, è rimasto vigente il rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro.
Considerato che la durata media dei rapporti di lavoro in Italia è di circa sette anni, ormai, alla fine del 2022, solo ad una minoranza di lavoratori si continuano ad applicare le maggiori tutele insite nella L. n. 92/2012.
In altri termini è, ormai, generalmente, venuta meno la condizione giuridica che caratterizzava la distinzione tra rapporti dotati di “…una particolare forza di resistenza, quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione” (Corte Cost. n. 174/1972) e rapporti privi della tutela reintegratoria.
- Il nuovo orientamento giurisprudenziale
Ciò sta portando la giurisprudenza a rivedere l’ambito di applicazione del criterio di calcolo della prescrizione della retribuzione, ex art. 36 Cost., con inizio durante il rapporto di lavoro, dal momento della maturazione del diritto stesso, riducendolo ai soli casi di effettività della tutela reale.
In tempi recenti, in accoglimento della nuova interpretazione normativa dell’ambito di validità effettiva della c.d. tutela reale, alcuni pronunciamenti di Tribunali del merito hanno modificato il preesistente indirizzo. Tra questi, a titolo d’esempio, si segnalano:
- la Corte d’Appello di Milano con la sentenza n. 376 del 30 aprile 2019 nella quale si afferma che «anche laddove al rapporto di lavoro si applichi l’art. 18 novellato dalla c.d. legge Fornero, la prescrizione non decorre in costanza di rapporto, in quanto, a seguito della riforma dell’art. 18 l. n. 300/1970, la sanzione della reintegrazione è stata “fortemente ridimensionata, riservata ad ipotesi residuali, che fungono da eccezione rispetto alla tutela indennitaria, talché ne consegue che, nel corso del rapporto, il lavoratore si trova in una condizione soggettiva di incertezza circa la tutela (reintegratoria o indennitaria) applicabile nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, accertabile solo ex post nell’ipotesi di contestazione giudiziale del recesso datoriale»;
- il Tribunale di Cosenza, Sez. lavoro con la sentenza del 14/06/2022, n. 976 che ha affermato il seguente principio di diritto: “A seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012 all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, la prescrizione dei crediti retributivi non decorre in costanza di rapporto di lavoro, anche ove a questo sia applicabile il predetto art. 18 novellato. (Nel caso di specie, nell’accogliere la domanda di condanna datoriale al pagamento della retribuzione nonché di ulteriori emolumenti non corrisposti al lavoratore dimessosi per giusta causa, il giudice adito ha ritenuto infondata l’eccezione di prescrizione del diritto per intervenuta prescrizione quinquennale sollevata dalla società convenuta in ragione della stabilità reale del cessato rapporto lavorativo).”
Recentemente, dopo vari pronunciamenti favorevoli[7] ad opera di Tribunali del merito (e malgrado la persistente posizione contraria di altri[8]), la Corte di Cassazione con la sentenza della Sezione Lavoro del 06/09/2022, n. 26246 ha preso atto dei cambiamenti normativi e, sin dall’entrata in vigore della c.d. legge Fornero, ha ritenuto di far decorrere i termini di prescrizione dei diritti retributivi, anche per le imprese sopra soglia, alla data di cessazione del rapporto di lavoro. In essa si afferma il seguente principio di diritto: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro. Conseguentemente la prescrizione dei crediti lavorativi decorre dalla conclusione del rapporto di lavoro anche per quei rapporti in cui trova applicazione l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.”
Questo nuovo orientamento giurisprudenziale è stato confermato dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza del 20/10/2022, n. 30957
4. Conclusioni
Il nuovo indirizzo giurisprudenziale ha notevole rilevanza, oltre i molteplici casi individuali cui sarà applicabile: le imprese, in fase di redazione dei loro bilanci, potranno essere indotte da ciò ad incrementare il fondo rischi per vertenze in considerazione delle maggiori probabilità di contenzioso successivo alla fine dei rapporti di lavoro oltrchè sulla base della probabile maggiore incidenza economica della singola vertenza, a causa del più lungo tempo di maturazione, del diritto retributivo che potrà essere oggetto di rivendicazioni.
25/10/2022
Avv. Giorgio Tessitore
esperto in diritto del lavoro e previdenziale
convenzionato con il patronato Inas Cisl
[1] A questo fine ha prevalente carattere retributivo anche lo straordinario continuativo; la 13° mensilità; la 14° mensilità o erogazione, ove spettante; ecc.
[2] “…per le retribuzioni corrisposte a periodi non superiore al mese”
[3] “… per le retribuzioni corrisposte a periodi superiori al mese”
[4] Si tratta di licenziamenti per: vizi formali; vizi procedurali in licenziamenti disciplinari; motivi economici in ipotesi diverse dalla mancanza del presupposto causale.
[5] Unità produttive con più di 15 dipendenti, ovvero più di 5 in caso di imprenditore agricolo, o datori di lavoro con più di 60 dipendenti in totale.
[6] Ad eccezione dei seguenti casi per i quali resta vigente il rimedio della reintegrazione: licenziamento discriminatorio; licenziamento dato in forma orale; difetto di giustificazione su inidoneità fisica o psichica; licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa con insussistenza del fatto contestato.
[7] Tra questi: Tribunale Brescia, Sez. lavoro, 26/05/2021, n. 523; Corte d’Appello Milano Sez. lavoro, Sent., 28/02/2020.
[8] Si segnalano: la sentenza della Corte d’Appello di Milano, Sez. lavoro del 19/02/2019, n. 35; la sentenza del Tribunale di Udine, Sez. lavoro del 07/03/2022, n. 44